CONCETTO CATTOLICO DEL DIRITTO (I).[a]
R.P. Luigi Taparelli D'Azeglio d.C.d.G.
Da: Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna, parte I., principii teorici, Roma 1851 pag. 1-16.
PARTE I.
PRINCIPII TEORICI DEI GOVERNI AMMODERNATI
CAPO I. — IL PRINCIPIO ETERODOSSO È ABOLIZIONE DEL DIRITTO E DELL'UNITÀ SOCIALE.[*] (§. I n° 1-20)
1. Non sapremmo forse trovare altra età nella storia, in cui
tanto siasi ragionato di d[i]ritto e di unità
sociale quanto oggidì veggiamo farsi, non essendovi ormai
discordia civile che non divampi in nome della unità sociale,
nè violenza sì svergognata che non si adoperi in nome dei
diritti inviolabili: e per restringerci nei confini di nostra
penisola, tutti sanno quali frutti abbia recati alla patria sventurata
l'inalienabile diritto di nazionale indipendenza, e l'amore sviscerato
degl'Italiani come fratelli: tutti conoscono l'inviolabilità dei
d[i]ritti dei giudici inamovibili e le migliaia di
retrogradi escluse dalla unità sociale con ostracismo
sterminatore. Ma mentre i paroloni sonori ci martellavano e stancavano
il timpano, qual era lo spirito che animava i petti a pronunziarli?
L'uomo è libero, diceano i rigeneratori; e libero
per essi era sinonimo di indipendente:
e questa indipendenza era quella appunto che un frate apostata,
putrido avanzo di cloaca lasciva [Lutero, N.d.R.],
soffia tuttora dalla sua tomba sulla Europa da lui ammaliata
coll'incantesimo di tal libertà. Il primo passo dunque, che
dobbiam dare nello svolgimento del principio rigeneratore,
volgasi all'esame del principio medesimo e degli effetti ch'esso de[v]e
necessariamente produrre tostochè s'invisceri in una
società. L'effetto è precisamente il contrario di ciò
che i rigeneratori promettono: e mentre essi fanno suonare sì
alto la speranza di unità pel regno inviolabile del diritto,
il loro principio (e noi prendiamo a dimostrarlo) rende impossibile
perfino l'idea del diritto e per conseguenza ogni vincolo di sociale
unità.
La dimostrazione è sommamente agevole, in un tempo soprattutto
in cui il pieno esplicamento ove giunse in altre nazioni il principio
luterano fruttifica sì evidentemente un total discioglimento
della società. All'aspetto di quella discordia che colla fiaccola
alla mano va divampando tutte le contrade ove la precorse colla
emancipazion degl'intelletti il protestantesimo, le ragioni che io
recherò a dimostrare impossibile (sotto l'influenza protestante),
non che l'umanitaria, apice
dell'unità sociale, ogni altra anche minor società, non
potranno certamente esser tacciate di sterili specolazioni o di utopie
filosofiche: esse non saranno se non una spiegazione ragionata di un
fatto che tutti veggono, che tutti deplorano, perchè tutti ne
sentono i colpi spietati.
Ripetiam[o]lo pur dunque francamente: ogni unità
sociale de[v]e crollare e sgominarsi tosto che vi
s'introduca e vi regni il principio protestante: e le ragioni si
riducono tutte a quest'una, che ammesso il principio luterano è
impossibile ogni vera idea del d[i]ritto. Ben potranno
alcuni protestanti per incoerenza logica o per una eventualità
accidentale ammettere un qualche principio di d[i]ritto
nella loro società: questo peraltro sarà effetto d'una
abitudine, di un caso, di mancanza nel raziocinio, di rettitudine
naturale nelle inclinazioni, o d'altre simili condizioni fortuite di
questo o quell'individuo. Ma la natura
del principio protestante, quella natura che tosto o tardi produce
finalmente gl'inevitabili suoi effetti, rende assolutamente
impossibile l'idea del d[i]ritto e per conseguenza
dell'unità sociale.
2. Giacchè qual'è la prima causa di questa unità? Non
è chi l'ignori: la società vien rannodata dal d[i]ritto:
Coetus hominum... iure sociatus,
definivasi dal grande Oratore e Filosofo politico di Roma la
Società: Unione d'uomini
associati dal d[i]ritto. Se dunque io vi
dimostro che nel protestantesimo manca perfino l'idea, la
possibilità del d[i]ritto,
la causa del cattolicismo ha vinto; ed ogni Italiano assennato de[v]e
confessare che il mezzo proposto dall'apostata a formar l'unità
sociale otterrà appunto il contrario di ciò che promette, lo
sperpero estremo dell'unità italiana e la discordia universale
fra le genti. Or codesta dimostrazione volendola condurre con piena
evidenza richiede la viva comprensione dei due termini, che il Mazzini
pretende congiungere, e che noi diciamo incompossibili.
3. Secondo costui l'unità sociale (e per conseguenza il d[i]ritto
senza cui l'unità è impossibile) de[v]e
nascere per l'Italia dall'abbracciare il razionalismo protestante:
secondo noi codesta apostasia renderebbe impossibile l'idea del d[i]ritto, e per
conseguenza ogni unità sociale. A sentenziare fra queste due
contraddittorie [= fra
queste due affermazioni contrastanti, N.d.R.]
ci vuole una chiara idea del d[i]ritto
che de[v]e crearsi, e del razionalismo
con cui dovrebbe crearsi. E queste due idee appunto
svolgerò io brevemente nei due paragrafi susseguenti, facendone
poscia nel quarto le pratiche applicazioni.
Ma come farò a darvi una giusta idea del d[i]ritto
senza entrare nello spinaio delle astrattezze? specialmente volendo
che questi cenni sul d[i]ritto sieno abbastanza
sviluppati, per aprire la via alle tante trattazioni particolari di d[i]ritto
sociale, che tiene in queste pagine una parte si estesa e si cospicua?
Io certo farò ogni sforzo per essere intelligibile; ma voi,
lettor mio cortese, persuadetevi, che la base delle idee morali sta
nelle idee metafisiche, e che trattar le idee metafisiche a modo di
romanzo, o anche solo a modo d'istoria, ben può esser promessa di
cerretani [= ciarlatani, N.d.R.],
ma non sarà mai impresa di filosofo. Ben potrei ricordarvi certe
idee universali, certi sentimenti di equità, che si fanno strada
da sè medesimi in ogni intelletto ed in ogni cuore, fondando poi
sopra di questi tutte le susseguenti dimostrazioni: ma con tali
elementi potrei io poscia sperare quella rigorosa evidenza, che forza
il convincimento, e forma il più bel pregio delle trattazioni
filosofiche?
In questo primo paragrafo ci vuoi dunque un po' di pazienza, a me
sforzandomi d'esser chiaro, a voi applicando con qualche
intensità l'intelletto. Nei paragrafi seguenti la bisogna
sarà men difficile e la vostra pazienza men travagliata.
§. I. Idea del d[i]ritto.
4. E in primo luogo come faremo a concepire una giusta idea, un'idea
metafisica del d[i]ritto? Bisogna rientrare in noi
medesimi e domandarci conto del come nasca in noi a poco a poco questa
idea, e per conseguenza che cosa esprima questo vocabolo: e quanto
più vera, più esatta, più universale sarà l'idea
che ce ne formeremo, tanto migliore sarà la nostra filosofia.
— Ditelo dunque voi che cosa significhi il linguaggio volgare,
quando vi dice: «io ho d[i]ritto,
rispettate il mio d[i]ritto».
Egli intende d'imporvi una certa legge, di rappresentarvi un certo
essere onnipossente, una certa maestà suprema, imperiante [lo
stesso di imperante, N.d.R.] ad ogni uomo che capisce,
alla quale niun uomo può resistere senza rinnegare la propria
ragione, e per conseguenza senza offendere la regola suprema, secondo
la quale questa dovrebbe guidarsi. Il d[i]ritto è
dunque una forza, ma forza morale,
violabile sì dalla nostra mano e da ogni forza materiale; ma
sempre sussistente, sempre viva, sempre parlante, malgrado qualunque
materiale violazione.
5. E se alcuno per caso voglia sottrarsi all'influenza di codesta
forza, per quali vie procede? Alle vostre ragioni contrappone ragioni
contrarie, a' fatti altri fatti: tutto sottopone alla vostra
discussione, e spera, e talora ottiene che a lui vi arrendiate, che
conosciate di avere il torto. Vedete qual è il succo onde si
alimenta codesta pianta, la scintilla elettrica con cui codesta forza
opera? La verità è
sempre base del d[i]ritto, perchè la sola
verità può dominare l'altrui ragione, e dar così
all'uomo la meravigliosa forza di muovere senza violenza l'altrui
volontà. Se colla verità delle ragioni avrete
convinto l'intelletto del vostro avversario, legherete tosto col d[i]ritto
la sua volontà sì gagliardamente, che più non
potrà resistervi senza rimorso. Ma se le vostre ragioni non lo
persuadono, voi non avete appiglio ad afferrarne irresistibilmente la
volontà; se tentate di persuaderlo coll'interesse, la
volontà può rinunziarvelo; se di muoverlo coll'affetto,
l'affetto disgiunto dal dovere e dal d[i]ritto può
ragionevolmente combattersi, senza che la coscienza rimorda, senza che
l'onestà arrossisca. La volontà insomma è libera
finchè la verità non parla; ma appena la verità ha
parlato, uom ragionevole ed onesto non può resistere sotto pena
capitale, sotto pena di perdervi la testa
ed il cuore, la
ragione e l'onestà. Vedete qual è il principio, la prima
radice del d[i]ritto!
6. Inoltriamoci. Quale specie di verità è quella sopra di
cui dovrà fondarsi il d[i]ritto? Basterebbe ella
una qualunque speculazione di vero per muovere l'altrui volontà?
Capirete benissimo che no. Il vostro d[i]ritto de[v]e
dare un impulso all'opera altrui. Nè voi potete dire io
ho d[i]ritto, se non quando sentite in voi una
forza capace d'ottenere d'altrui che egli operi a seconda de' vostri
desiderii. Voi dunque capite, che la verità base del d[i]ritto
debb'essere una verità pratica, non già puramente
speculativa. Se voi dite al prossimo vostro: «il tutto è
maggiore della parte; 2 e 2 fanno 4; lo zodiaco taglia obliquamente
l'equatore» e simili altre verità speculative, non
l'indurrete mai a far cosa per voi: egli contemplerà codeste
verità se gli piacciono, e poi se n'andrà pe' fatti suoi.
Convien dunque cercare una verità pratica, una verità che
possa muoverlo, e muoverlo irresistibilmente.
7. Or qui domando a voi stesso, qual verità trovar mi possiate
al mondo, che muova l'uomo irresistibilmente: non mancherà forse
chi risponda nessuna, fuorchè un braccio più nerboruto del
suo. Ma chi così rispondesse, confonderebbe l'uomo, non dico
già col bruto, ma per fino col tronco e col macigno, i quali non
si muovono, se non quando la forza del braccio supera la loro
resistenza. Or così l'uomo, in quanto partecipa del tronco e del
macigno, non può essere mosso se non da un braccio più
nerboruto del suo. Se all'opposto considerate l'uomo in
quanto è uomo cioè ragionevole, vedrete ch'egli
potrà esser vincolato e mosso dalla verità, tosto che
codesta verità gli dimostri ragionevole l'operare, irragionevole
il rimanersi. Se a fronte di codesta verità egli osasse
resistere, la sua ragione gliene farebbe tosto acerbo rimprovero: tu
non operi da uom ragionevole. gli direbbe internamente; e tanto
sarebbe impossibile all'uomo il darle una mentita, quanto gli è
impossibile il dire, che 2 e 2 non fanno 4.
Trovare dunque una verità, che sia base del d[i]ritto,
vale altrettanto, che trovare una verità alla cui vista ogni uom
ragionevole debba dire: «se io non opero come costui mi richiede,
io opero irragionevolmente». Per lo che la base di ogni diritto
altra non è finalmente, che la base dell'operar ragionevole di
tutti gli uomini. E questa base qual'è?
8. Oh qui non ci è dubbio: la ragione per cui l'uomo opera
ragionevolmente è sempre la felicità: in questo tutti sono
d'accordo, e tutti lo trovano sommamente ragionevole. Ma non per
questo abbiam concluso nulla, giacchè dopo aver conceduto essere
ragionevole, che uom cerchi la sua felicità, s'incomincia poi
nuovamente a disputare dove codesta felicità sia riposta. Buon
per me, che parlo ad un Cattolico, nè ho da temere ch'egli
asserisca felice colui, che sollazzandosi per ogni prato,
scapricciandosi d'ogni appetito, vive qui più da bestia che da
uomo, e correr a rompicollo verso casa del diavolo. Ogni Cattolico sa
non esser felicità sulla terra, se non nel tendere al cielo.
9. Ma questo sentimento sì vero e sì ragionevole ispirato
al Cattolico dal catechismo, io lo trovo, la Dio mercè, in altri,
che sebben non cattolici serbano pure un qualche raggio d'onestà,
e che dicendosi pronti al sacrificio del piacere e del danaro, non
isperano felicità, se non dall'ordine e rettitudine di loro
operazioni. Frattanto costoro non hanno un catechismo che determini
ciò che de[v]e dirsi ordinato ed onesto, ciò
che disordinato e malvagio. Eccoci dunque nuovamente incagliati nel
render ragione di ciò che si chiama l'ordine
e del motivo per cui esso ci comanda obbedienza e riverenza. Cerchiamo
dunque che cosa sia quest'ordine,
dal quale gli uomini onesti derivano la loro riverenza ad ogni
diritto.
10. In questo punto, lettor mio cortese, avrete avuto mille volte
occasione di deplorare la poca chiarezza d'idee con cui suol
discorrersi in società: si sente continuamente parlare del buon ordine e del disordine;
ma quel ch'è buon ordine per gli uni è disordine per gli
altri, e viceversa; e mentre Thiers in nome dell'ordine difende la
proprietà, Proudhon invoca l'ordine per prender la roba de'
ricchi, i cui possedimenti egli chiama disordine. Domandate a ciascuno
de' due le rispettive sue ragioni; il primo vi risponderà
necessità di natura essere il rispetto alla proprietà,
l'altro all'opposto ordine di natura esser l'uguaglianza fra gli
uomini. Seguitateli pure in tutt'i loro raziocinii, e troverete
costantemente, che l'uno chiama assioma
ciò che l'altro assurdità;
ognuno taccia l'avversario di testardaggine, perchè niega
ciò che tutti consentono, e così, mai non si può
giungere all'ultima risoluzione definitiva de' problemi sociali.
E perchè? Perchè manca un principio comune da cui tutti
partano, ed a cui tutti invariabilmente aderiscano.
11. Frattanto per altro osservate, ch'essi consentono in un
presupposto, vale a dire, che l'ordine
invocato altro non è finalmente, se non ciò ch'è
conforme alla natura: il che è talmente impresso nel cuore di
ciascun uomo, che alla natura finalmente si ricorre, come ad ultima
ragione per convincere ogni ostinato. Supponete infatti che un vostro
debitore negasse di restituirvi a suo tempo il danaro imprestatogli, a
quali mezzi ricorrereste voi per piegarne la volontà? È
chiaro, che da prima cerchereste una legge nel Codice. Ma supponete
che nel Codice non fosse registrato il principio del vostro d[i]ritto,
o che la legge stessa del Codice fosse tacciata d'ingiustizia, qual
ripiego vi rimarrebbe a convincere il vostro avversario? M'immagino,
che incomincereste a mostrargli «essere impossibile che sussista
il commercio senza lealtà; chi gl'impresterà per l'avvenire
s'egli non rende? Per qual titolo pretende egli arrogarsi
l'altrui?» E così con altre ragioni dedotte
dalla natura dell'uomo, della società, degl'interessi
procurereste di rendere innegabile il vostro principio. Questa
convenienza di un atto dedotto dalla
natura degli elementi in cui si versa è quella, che
chiamar sogliamo legge della
natura, d[i]ritto
naturale, ordine naturale.
12. L'ordine naturale base di ogni d[i]ritto, non
è dunque altro, se non una certa convenevolezza,
che noi ravvisiamo in alcune azioni. Ma questa convenevolezza
come voi ben vedete, è un termine relativo.
Quando io dico una tale azione conviene
o disconviene, debbo avere in capo un certo scopo,
a cui convenga o disconvenga; ed appunto per questo una medesima
azione può dirsi secondo varii intenti or conveniente or
disconveniente: al militare conviene procedere armato, al sacerdote
disconviene, perchè lo stato militare ha per suo fine
sostenere colla forza il d[i]ritto: il
sacerdozio no; prendere un emetico conviene all'infermo che vuol
guarire, disconviene al sano. Se dunque voi non determinate
lo scopo per cui opera la natura,
voi non potete mai dire conveniente, o disconveniente, ordinata o
disordinata l'operazione naturale. Ed ecco appunto la ragione del
tanto svario, quando si favella di ordine o disordine: mentre tutti
sentono che la natura debbe avere un qualche scopo a cui ordina le sue
azioni, e per conseguenza anche le azioni dell'uomo, non consentono
per altro nel determinare qual sia questo scopo, e così stanno in
perpetue divergenze intorno al mezzo, che conviene
adoperare per conseguirlo. Ecco dunque l'altro passo che
dobbiam fare per determinare chiaramente l'ordine
naturale, ossia ciò che conviene secondo natura:
dobbiamo determinare a quale scopo
sia diretto tutto l'operar naturale. Determinato questo punto
sarà facile accordarsi su
ciò che conviene, ossia sull'ordine
delle operazioni; determinato l'ordine
sarà facile comprendere il d[i]ritto.
13. Or io non credo malagevole fra noi due determinar lo scopo
dell'operar di natura,
giacchè sarem presto d'accordo sul significato di questo
vocabolo. Ammettete voi che la natura di cui parliamo altro non è
finalmente, che un certo primitivo principio di movimento innestato
dal Creatore in ogni essere nell'atto della creazione? Questa è
la differenza fra l'operar naturale, e l'artificiale: il primo ha un
intimo principio inseparabile dall'essere creato, il secondo viene a
questo sopraggiunto dall'artificio umano. Così la molla d'un
orologio è, come acciaio,
naturalmente elastica, e tesa si rallenterebbe in un attimo;
ma l'arte dell'orologiaro contrapponendovi de' contrasti, ne rallenta
l'impeto naturale, e produce il moto artificiale
dell'orologio. Chi ha dato all'acciaio quel principio di moto, quella
tendenza a ripristinarsi che chiamiamo elasticità? Il Creatore. E
chi gli ha dato quella lentezza e regolarità con cui misura le
ore? L'orologiaro. L'operare naturale è dunque dato dal Creatore,
modificato dall'artefice.
Se voi ammettete questa idea dell'operare naturale a distinzione
dell'artificiale, io dissi che saremo subito d'accordo intorno al vero
scopo di questa naturale operazione;
la quale, come ben vedete, altro non essendo se non l'operazione
comunicata immediatamente da Dio alla sua creatura nell'atto del
crearla, altro scopo non può avere, fuor di quello ch'ebbe egli
stesso il Creatore. Il Creatore infuse ne' corpi inorganici la
gravitazione per collegarli nella mole dell'universo: ecco il fine
della gravitazione naturale. Infuse ne' vegetabili la forza
esplicatrice, assimilatrice, riproduttrice, per continuarne e
moltiplicarne la specie: ecco il fine della naturale vegetazione.
Infuse negli animali la sensazione per condurli colla
spontaneità: ecco il fine della natura sensitiva. Così
andate dicendo di ogni forza naturale: essa è sempre l'opera del
Creatore nella formazione natìa ed ha per fine il fine del
Creatore medesimo. Ed eccoci in tal guisa risaliti, come voi ben
vedete, al supremo principio di ogni ordine, il fine
dell'Ordinator supremo: determinato questo sarà facile a
determinarsi e l'ordine universale, ed ogni ordine particolare, e per
conseguenza anche l'ordine dell'operare umano: determinato
quest'ultimo concepiremo facilmente una giusta idea del d[i]ritto.
14. Or lo scopo del Creatore nel formar l'universo non è
difficile a ravvisarsi (specialmente dopo che Egli lo ha rivelato per
fede) per poco che vogliam discorrere da galantuomo. Che cosa potea
Egli desiderare, che cosa ottenere creando l'universo? Il navigante,
che muove da un lido ha una spiaggia rimota a cui tende; il negoziante
nel commerciare mira ad un danaro che ancor non ha; il militar che
combatte palpita per la patria e vuol salvarla: ogni uomo insomma che
opera, ha fuor di sè un obbietto che vuol conseguire. Ma il
Creatore quale obbietto vedea fuor di sè prima della creazione?
Egli non vedea nulla, nulla bramava, da nulla dipendea: tutto trovava
in sè solo, il reale ed il possibile. A sè dovette egli
dunque necessariamente mirare quando formò il disegno
dell'universo, in sè trovava le ragioni finali non meno, che il
disegno e le forze esecutrici.
15. Or qual ragione potea trovare in
Sè, che lo inducesse a creare? Qual pro potea tornargli
dalla creazione dell'universo? A Lui non altro, che quello di
associare alla propria felicità le intelligenze create, e
d'ottenerne gli ossequii comunicando a queste conoscimento ed amore; e
poichè di queste intelligenze una fu da lui destinata ad avvivare
il materiale organismo corporeo, a questo corpo dovette poi
somministrare abitazione e sussidii materiali per sostentarsi ed
operare. Ecco lo scopo del Creatore nel formar l'universo; scopo
manifestato a noi dalla rivelazione, ma al naturale intendimento
sommamente ragionevole ed evidente. Ed appunto per questo io non
andrò per le lunghe spiegando codesta dimostrazione, la quale non
suole incontrare gravi ostacoli presso persone giudiziose, benchè
eterodosse o miscredenti. Ben gl'incontrerebbe gravissimi nel
panteismo di che tanti delirano, e che formando dell'universo una necessaria evoluzione del germe
divino, ne toglie ogni idea di libero disegno, e di causa finale. Ma
siccome in questo assurdo ed empio sistema il diritto sarebbe
impossibile ed inconcepibile; così volendo io rendervi ragione
del d[i]ritto, debbo prescindere da codesto sistema, in
cui concedo io stesso, che ogni d[i]ritto andrebbe
naufrago nell'abisso di quegli errori.
16. Abbiamo stabilito, che la base del diritto si trova nell'ordine
dell'operare naturale; che l'operare naturale è ordinato a
compiere gl'intenti di chi creò la natura; che questo intento fu
di avere degli ammiratori ed amanti; che formò l'universo
materiale per dare alle intelligenze umane albergo e sostegno.
Ecco in quattro proposizioni la giusta idea di ciò ch'io chiamo
ordine universale. Come
vedete, l'intelligenza è per
natura ordinata al conoscimento ed all'amore del Creatore;
l'universo materiale ad albergo e sostentamento della intelligenza
incorporata.
Da quest'ordine universale è facile dedurre quell'ordine che
chiamiam morale, quello cioè secondo cui debbono essere dirette
costantemente le operazioni libere (mores)
dell'uom ragionevole: l'uom ragionevole debbe [= deve
N.d.R.] usar le
creature materiali in modo d'agevolare a sè medesimo ed alle
altre intelligenze sue pari l'ammirazione e l'amore del suo Creatore,
obbietto ultimo della creazione dell'universo. Chi ammette questi
principii comprende tosto che voglia dire il d[i]ritto,
comprende quella forza irresistibile, che il d[i]ritto
esercita sopra ogni animo onesto. Appena ad uom ragionevole io fo
intendere, che l'azione di cui lo richieggo è conforme al disegno
del Creatore e necessaria a farLo riverire ed amare; e che il
ricusarmela sarebbe fallire a Lui medesimo a cui tutto è dovuto,
e da cui ogni felicità può sperarsi, io ne ho legata la
volontà per modo, che dinegandomi la mia richiesta, viene a
negare la sua natura medesima ed a porsi in guerra col Creatore.
Esemplifichiamo. Voi creditore mi chiedete il mio debito, io vi niego
il vostro d[i]ritto dicendomi non obbligato. Come fate
voi a persuadermi il vostro d[i]ritto e la mia
obbligazione? Farete come fanno coi comunisti il Thiers o il Bastiat.
«E vi parrebbe egli ragionevole, mi direte, che in questo mondo,
formati tutti colla natura medesima, gli uni dovessero faticare per
gli altri? Che le privazioni con cui l'uomo industre accumulò per
la vecchiaia i frutti di lunghi sudori dovessero ridondar finalmente
in pro d'uno scialacquatore infingardo, che altro non fece in sua
vita, che rubare e godersela?»
Il quale argomento, sapete voi donde deriva finalmente tutto il
logico suo vigore? Lo deriva da quest'altro: «Se fosse lecito naturalmente al mutuatario
ritenersi il capitale imprestatogli, l'ordine di natura
rappresenterebbe un Dio ingiusto; e l'intelligenza invece d'ammirarlo
ed amarlo, ne inferirebbe col Proudhon, che Dio
è il male. Or l'ordine di natura de[v]e
farci conoscere Dio qual bene supremo. Dunque l'ordine di natura vuole
che il mutuatario restituisca.»
Vedete? Tutta la forza del d[i]ritto con cui incalzate
altrui, voi la ripetete dall'ordine che de[v]e regnare
nel mondo, dal disordine che vi regnerebbe se si supponesse legge
opposta al vostro d[i]ritto. E questo che abbiam detto
del d[i]ritto d'un creditore ditelo pure d'ogni d[i]ritto
naturale: sempre voi ricorrete, forse senza pure avvedervene, a quel
gran principio dell'ordine: «se questo d[i]ritto
non avesse forza secondo ragione, l'universo non sarebbe ordinato, il
suo Creatore non apparirebbe nè ammirabile per sapienza, nè
amabile per bontà.»
17. Ecco la ragione di quella specie di religione, che rende sacro
ogni d[i]ritto: appena il d[i]ritto
parla, tu vedi sorgere dietro di lui l'augusta e terribile maestà
del supremo Fattore, che parla ed impera: e così appunto la vide
per fin quell'empio sofista di Conisberga, il Kant, che dopo aver
cancellato dalla realtà dell'universo l'infinito esser di Dio,
volendo poi ritenere nell'ordine pratico quel sentimento obbligatorio,
da cui ogni d[i]ritto acquista la sua gagliardia,
dietro il fantasma del suo Imperativo
categorico, fece sorger redivivo il temuto e combattuto Dio,
fuori di cui gli veniva meno ogni idea di d[i]ritto e
d'ordine mancando ogni principio d'inviolabilità. Se non che con
quel suo ragionare al rovescio toglieva ogni forza a quel Dio medesimo
che invocava a protezione del suo d[i]ritto. Per noi
che assumiamo come certa d'altronde l'esistenza di Dio, irresistibile
è l'argomento: «Dio comanda; dunque, creatura,
obbedisci». Ma pel sofista di Conisberga questo argomento si
riduce in tutt'altra forma; ed ogni uomo che voglia far valere il suo
d[i]ritto così argomenta contro il debitore:
«Io non so se Dio esista; ma se Dio non esistesse io non avrei
tal d[i]ritto che pur mi compete, nè tu saresti
obbligato; dunque Dio deve esistere per tutelare il mio d[i]ritto».
Se quel cervello balzano avesse adoprato un tale argomento rispetto
all'autorità umana avrebbe fatto ridere perfino le galline.
Supponete che in una selva assalito da un ladro così gli avesse
parlato: «Se ci fossero qui i gendarmi tu non oseresti togliermi
la mia borsa; dunque devi credere che i gendarmi ci sono affinchè
la mia borsa rimanga in sicuro.» Credete voi che il ladro si
asterrebbe dal rubargliela?
18. Dal che comprenderete che il d[i]ritto, detto da
noi poc'anzi una forza morale dell'uomo
colla quale egli riesce a piegare l'altrui volontà, a parlare
più propriamente dovrebbe dirsi forza del Creatore, cui l'uomo
contrappone alle disordinate voglie d'altr'uomo per trattenerle dallo
scapestrare, e metter sossopra il mondo morale. Nel che, lungi dal
recare altrui il menomo danno, gli reca anzi il massimo vantaggio, non
essendovi maggior bene per l'uomo, nè via più certa ad
ottenere felicità verace, che quella via in cui lo indirizzò
creandolo, la mano paterna del suo Fattore. Per lo che vanno
stranamente errati il Romagnosi ed altri tali, che nel d[i]ritto
e dovere null'altro sanno
vedere, se non un perpetuo antagonismo, elemento di guerra indomabile
per cui ogni uomo contrasta al suo simile. Se costoro appellano uomo
ogni più rabbiosa passione, che scorra per le vene a questa parte
animalesca di nostra natura, per cui ci assomigliamo alle bestie, oh
allora sì, debitori e creditori, tutti siamo altrettanti mastini,
ciascun de' quali come afferrò un osso, così ringhia e
guarda in cagnesco ogni altro che gli si accosti per istrappargli
dalle zanne la preda. Ma se siam uomini, vale a dire intelligenti, se
l'intelligenza non respira che ordine; chiunque mi rappresenta
l'ordine, mi mette in un'atmosfera respirabile, e quasi mi rende la
vita: e qual è quell'uomo onesto (ma di onestà non
ipocrita), che non si professi obbligato a chi lo campa dal commettere
una ingiustizia, sia pure a costo di qualsivoglia interesse?
Quando dunque ad uom ragionevole voi rappresentate l'ordine, voluto
dal Creatore nell'universo, voi gli offerite il suo bene e ne
incatenate in certa guisa la volontà, con quella forza che suol
dirsi il d[i]ritto.
19. Veggo per altro che potreste oppormi una difficoltà, la cui
soluzione gioverà a farvi concepire viemeglio la giusta ed
adequata idea del d[i]ritto. «Se l'ordine voluto
dal Creatore, potreste dirmi, legasse le volontà umane, ad ogni
apparizione dell'ordine queste si troverebbero legate. E pure quante
volte l'ordine apparisce senza che la vostra volontà si senta per
nulla necessitata eseguirlo! Voi state scrivendo, ed i vostri
caratteri presenterebbero un ordine molto più perfetto, se
fossero condotti colle proporzioni di abile calligrafo: vi credete voi
obbligato a codesto ordine?
La vostra camera non sarebbe ella più ordinata, se i mobili, gli
scritti, i libri, tutto fosse disposto con ragioni di perfetta
simmetria? E pure non vi credete obbligato da cotesto ordine. Anzi
nello stesso indirizzo morale delle vostre operazioni tanto è
più ammirabile l'ordine, quanto più sublime l'eroismo: obbligherete voi per questo
tutti gli uomini ad essere eroi?»
20. L'obbiezione è gravissima; e dal non averne sentita la forza
nacque lo stoicismo di coloro, che dalla sola bellezza della
virtù traendo ogni forza obbligatrice, credettero potersi
separare interamente la scienza della onestà da quella della
felicità (Deontologia ed
Eudemonologia). Ma appunto per evitare questo scoglio io vi
presentai poc'anzi nel Creatore la fonte suprema d'ogni ordine e
d'ogni d[i]ritto, sguardandolo non solo in quanto
è dator dell'essere e
della natura, ma anche in
quanto egli è termine ossia obbietto di felicità
piena ed assoluta. Se voi dimenticate quest'ultimo termine,
mai non potrete concepire una giusta idea di
ordine, di obbligazione,
di d[i]ritto;
voci tutte che esprimono la direzione dell'opera da un punto ad un
altro: or come vorreste voi esprimere una direzione avendo l'idea d'un
punto solo? Ogni direzione è una linea retta, ed ogni retta non
infinita de[v]e terminarsi a due punti. La natura
umana, principio di quel movimento
di cui stiamo cercando la direzione,
parte dalla mano creatrice in un determinato punto dello spazio e del
tempo; ma verso dove? Tutte le altre creature, operando per ispontanea
necessità, giungono allo scopo del Creatore senza conoscerlo; ma
l'uomo che opera con libera volontà, conviene che lo conosca per
muovere colà i suoi passi. E lo conosce in fatti, e lo sente, e
per poco che rifletta su di sè medesimo, riconosce in sè una
tendenza a felicità che ha dell'infinito, e che fuor
dell'infinito non può arrestarsi nè satollarsi giammai. Solo
dunque nell'infinito, solo in Dio può trovare riposo; ed appunto
a quest'obbietto lo trae ineluttabilmente, non la necessità
spontanea come i bruti, ma
la necessità di ragione evidente, cui la volontà ragionevolmente non può resistere.
la necessità di ragione evidente, cui la volontà ragionevolmente non può resistere.
Ecco l'ultimo compimento dell'ordine,
dell'obbligazione, e per[ci]ò
del d[i]ritto:
se vedete che una data operazione è necessaria a conseguire un
tal fine, voi non potete tralasciarla ragionevolmente: se la vedete
opposta, non potete commetterla: se la vedete indifferente, siete
libero all'uno e all'altro. Ed ecco perchè molti ordini,
benchè innamorino lo sguardo dell'intelletto, non legano i passi
della volontà: essa vede che quell'ordine non è talmente necessario nel morale andamento
dell'universo, che anche senza di quello l'universo non possa dirsi
opera d'un Dio sapiente e buono; anche senza di questo l'uomo non
possa trovar felicità glorificandone il Creatore.
Stringiamo in pochissimi termini quest'analisi della obbligazione.
L'elemento immobile, irresistibile è il desiderio indefinito di
felicità: questo desiderio eccita l'uomo ragionevole a cercare
l'obbietto infinito in cui saggiarlo: quest'infinito si trova in Dio
solo; per giungervi conviene batter le vie che Egli segnò
all'uomo nell'universo. Dunque se l'uomo vuol seguir la ragione deve, è necessitato
moralmente a seguire queste: e tanto è gagliarda questa
necessità morale quanto irresistibile la brama di felicità.
[CONTINUA]
NOTE:
[*] La materia trattata in questo
capitolo potrà servire di schiarimento principalmente al Cap. III
del 2° volume del Saggio
teoretico di diritto naturale dal N.° 341 in poi.
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