mercoledì 27 luglio 2016

CONCETTO CATTOLICO DEL DIRITTO (I).[a]

R.P. Luigi Taparelli D'Azeglio d.C.d.G.

Da: Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna, parte I., principii teorici, Roma 1851 pag. 1-16.
PARTE I.
PRINCIPII TEORICI DEI GOVERNI AMMODERNATI
CAPO I. — IL PRINCIPIO ETERODOSSO È ABOLIZIONE DEL DIRITTO E DELL'UNITÀ SOCIALE.[*] (§. I n° 1-20)
1. Non sapremmo forse trovare altra età nella storia, in cui tanto siasi ragionato di d[i]ritto e di unità sociale quanto oggidì veggiamo farsi, non essendovi ormai discordia civile che non divampi in nome della unità sociale, nè violenza sì svergognata che non si adoperi in nome dei diritti inviolabili: e per restringerci nei confini di nostra penisola, tutti sanno quali frutti abbia recati alla patria sventurata l'inalienabile diritto di nazionale indipendenza, e l'amore sviscerato degl'Italiani come fratelli: tutti conoscono l'inviolabilità dei d[i]ritti dei giudici inamovibili e le migliaia di retrogradi escluse dalla unità sociale con ostracismo sterminatore. Ma mentre i paroloni sonori ci martellavano e stancavano il timpano, qual era lo spirito che animava i petti a pronunziarli? L'uomo è libero, diceano i rigeneratori; e libero per essi era sinonimo di indipendente: e questa indipendenza era quella appunto che un frate apostata, putrido avanzo di cloaca lasciva [Lutero, N.d.R.], soffia tuttora dalla sua tomba sulla Europa da lui ammaliata coll'incantesimo di tal libertà. Il primo passo dunque, che dobbiam dare nello svolgimento del principio rigeneratore, volgasi all'esame del principio medesimo e degli effetti ch'esso de[v]e necessariamente produrre tostochè s'invisceri in una società. L'effetto è precisamente il contrario di ciò che i rigeneratori promettono: e mentre essi fanno suonare sì alto la speranza di unità pel regno inviolabile del diritto, il loro principio (e noi prendiamo a dimostrarlo) rende impossibile perfino l'idea del diritto e per conseguenza ogni vincolo di sociale unità.
La dimostrazione è sommamente agevole, in un tempo soprattutto in cui il pieno esplicamento ove giunse in altre nazioni il principio luterano fruttifica sì evidentemente un total discioglimento della società. All'aspetto di quella discordia che colla fiaccola alla mano va divampando tutte le contrade ove la precorse colla emancipazion degl'intelletti il protestantesimo, le ragioni che io recherò a dimostrare impossibile (sotto l'influenza protestante), non che l'umanitaria, apice dell'unità sociale, ogni altra anche minor società, non potranno certamente esser tacciate di sterili specolazioni o di utopie filosofiche: esse non saranno se non una spiegazione ragionata di un fatto che tutti veggono, che tutti deplorano, perchè tutti ne sentono i colpi spietati.
Ripetiam[o]lo pur dunque francamente: ogni unità sociale de[v]e crollare e sgominarsi tosto che vi s'introduca e vi regni il principio protestante: e le ragioni si riducono tutte a quest'una, che ammesso il principio luterano è impossibile ogni vera idea del d[i]ritto. Ben potranno alcuni protestanti per incoerenza logica o per una eventualità accidentale ammettere un qualche principio di d[i]ritto nella loro società: questo peraltro sarà effetto d'una abitudine, di un caso, di mancanza nel raziocinio, di rettitudine naturale nelle inclinazioni, o d'altre simili condizioni fortuite di questo o quell'individuo. Ma la natura del principio protestante, quella natura che tosto o tardi produce finalmente gl'inevitabili suoi effetti, rende assolutamente impossibile l'idea del d[i]ritto e per conseguenza dell'unità sociale.
2. Giacchè qual'è la prima causa di questa unità? Non è chi l'ignori: la società vien rannodata dal d[i]ritto: Coetus hominum... iure sociatus, definivasi dal grande Oratore e Filosofo politico di Roma la Società: Unione d'uomini associati dal d[i]ritto. Se dunque io vi dimostro che nel protestantesimo manca perfino l'idea, la possibilità del d[i]ritto, la causa del cattolicismo ha vinto; ed ogni Italiano assennato de[v]e confessare che il mezzo proposto dall'apostata a formar l'unità sociale otterrà appunto il contrario di ciò che promette, lo sperpero estremo dell'unità italiana e la discordia universale fra le genti. Or codesta dimostrazione volendola condurre con piena evidenza richiede la viva comprensione dei due termini, che il Mazzini pretende congiungere, e che noi diciamo incompossibili.
3. Secondo costui l'unità sociale (e per conseguenza il d[i]ritto senza cui l'unità è impossibile) de[v]e nascere per l'Italia dall'abbracciare il razionalismo protestante: secondo noi codesta apostasia renderebbe impossibile l'idea del d[i]ritto, e per conseguenza ogni unità sociale. A sentenziare fra queste due contraddittorie [= fra queste due affermazioni contrastanti, N.d.R.] ci vuole una chiara idea del d[i]ritto che de[v]e crearsi, e del razionalismo con cui dovrebbe crearsi. E queste due idee appunto svolgerò io brevemente nei due paragrafi susseguenti, facendone poscia nel quarto le pratiche applicazioni.
Ma come farò a darvi una giusta idea del d[i]ritto senza entrare nello spinaio delle astrattezze? specialmente volendo che questi cenni sul d[i]ritto sieno abbastanza sviluppati, per aprire la via alle tante trattazioni particolari di d[i]ritto sociale, che tiene in queste pagine una parte si estesa e si cospicua? Io certo farò ogni sforzo per essere intelligibile; ma voi, lettor mio cortese, persuadetevi, che la base delle idee morali sta nelle idee metafisiche, e che trattar le idee metafisiche a modo di romanzo, o anche solo a modo d'istoria, ben può esser promessa di cerretani [= ciarlatani, N.d.R.], ma non sarà mai impresa di filosofo. Ben potrei ricordarvi certe idee universali, certi sentimenti di equità, che si fanno strada da sè medesimi in ogni intelletto ed in ogni cuore, fondando poi sopra di questi tutte le susseguenti dimostrazioni: ma con tali elementi potrei io poscia sperare quella rigorosa evidenza, che forza il convincimento, e forma il più bel pregio delle trattazioni filosofiche?
In questo primo paragrafo ci vuoi dunque un po' di pazienza, a me sforzandomi d'esser chiaro, a voi applicando con qualche intensità l'intelletto. Nei paragrafi seguenti la bisogna sarà men difficile e la vostra pazienza men travagliata.

§. I. Idea del d[i]ritto.

4. E in primo luogo come faremo a concepire una giusta idea, un'idea metafisica del d[i]ritto? Bisogna rientrare in noi medesimi e domandarci conto del come nasca in noi a poco a poco questa idea, e per conseguenza che cosa esprima questo vocabolo: e quanto più vera, più esatta, più universale sarà l'idea che ce ne formeremo, tanto migliore sarà la nostra filosofia. — Ditelo dunque voi che cosa significhi il linguaggio volgare, quando vi dice: «io ho d[i]ritto, rispettate il mio d[i]ritto». Egli intende d'imporvi una certa legge, di rappresentarvi un certo essere onnipossente, una certa maestà suprema, imperiante [lo stesso di imperante, N.d.R.] ad ogni uomo che capisce, alla quale niun uomo può resistere senza rinnegare la propria ragione, e per conseguenza senza offendere la regola suprema, secondo la quale questa dovrebbe guidarsi. Il d[i]ritto è dunque una forza, ma forza morale, violabile sì dalla nostra mano e da ogni forza materiale; ma sempre sussistente, sempre viva, sempre parlante, malgrado qualunque materiale violazione.
5. E se alcuno per caso voglia sottrarsi all'influenza di codesta forza, per quali vie procede? Alle vostre ragioni contrappone ragioni contrarie, a' fatti altri fatti: tutto sottopone alla vostra discussione, e spera, e talora ottiene che a lui vi arrendiate, che conosciate di avere il torto. Vedete qual è il succo onde si alimenta codesta pianta, la scintilla elettrica con cui codesta forza opera? La verità è sempre base del d[i]ritto, perchè la sola verità può dominare l'altrui ragione, e dar così all'uomo la meravigliosa forza di muovere senza violenza l'altrui volontà. Se colla verità delle ragioni avrete convinto l'intelletto del vostro avversario, legherete tosto col d[i]ritto la sua volontà sì gagliardamente, che più non potrà resistervi senza rimorso. Ma se le vostre ragioni non lo persuadono, voi non avete appiglio ad afferrarne irresistibilmente la volontà; se tentate di persuaderlo coll'interesse, la volontà può rinunziarvelo; se di muoverlo coll'affetto, l'affetto disgiunto dal dovere e dal d[i]ritto può ragionevolmente combattersi, senza che la coscienza rimorda, senza che l'onestà arrossisca. La volontà insomma è libera finchè la verità non parla; ma appena la verità ha parlato, uom ragionevole ed onesto non può resistere sotto pena capitale, sotto pena di perdervi la testa ed il cuore, la ragione e l'onestà. Vedete qual è il principio, la prima radice del d[i]ritto!
6. Inoltriamoci. Quale specie di verità è quella sopra di cui dovrà fondarsi il d[i]ritto? Basterebbe ella una qualunque speculazione di vero per muovere l'altrui volontà? Capirete benissimo che no. Il vostro d[i]ritto de[v]e dare un impulso all'opera altrui. Nè voi potete dire io ho d[i]ritto, se non quando sentite in voi una forza capace d'ottenere d'altrui che egli operi a seconda de' vostri desiderii. Voi dunque capite, che la verità base del d[i]ritto debb'essere una verità pratica, non già puramente speculativa. Se voi dite al prossimo vostro: «il tutto è maggiore della parte; 2 e 2 fanno 4; lo zodiaco taglia obliquamente l'equatore» e simili altre verità speculative, non l'indurrete mai a far cosa per voi: egli contemplerà codeste verità se gli piacciono, e poi se n'andrà pe' fatti suoi. Convien dunque cercare una verità pratica, una verità che possa muoverlo, e muoverlo irresistibilmente.
7. Or qui domando a voi stesso, qual verità trovar mi possiate al mondo, che muova l'uomo irresistibilmente: non mancherà forse chi risponda nessuna, fuorchè un braccio più nerboruto del suo. Ma chi così rispondesse, confonderebbe l'uomo, non dico già col bruto, ma per fino col tronco e col macigno, i quali non si muovono, se non quando la forza del braccio supera la loro resistenza. Or così l'uomo, in quanto partecipa del tronco e del macigno, non può essere mosso se non da un braccio più nerboruto del suo. Se all'opposto considerate l'uomo in quanto è uomo cioè ragionevole, vedrete ch'egli potrà esser vincolato e mosso dalla verità, tosto che codesta verità gli dimostri ragionevole l'operare, irragionevole il rimanersi. Se a fronte di codesta verità egli osasse resistere, la sua ragione gliene farebbe tosto acerbo rimprovero: tu non operi da uom ragionevole. gli direbbe internamente; e tanto sarebbe impossibile all'uomo il darle una mentita, quanto gli è impossibile il dire, che 2 e 2 non fanno 4.
Trovare dunque una verità, che sia base del d[i]ritto, vale altrettanto, che trovare una verità alla cui vista ogni uom ragionevole debba dire: «se io non opero come costui mi richiede, io opero irragionevolmente». Per lo che la base di ogni diritto altra non è finalmente, che la base dell'operar ragionevole di tutti gli uomini. E questa base qual'è?
8. Oh qui non ci è dubbio: la ragione per cui l'uomo opera ragionevolmente è sempre la felicità: in questo tutti sono d'accordo, e tutti lo trovano sommamente ragionevole. Ma non per questo abbiam concluso nulla, giacchè dopo aver conceduto essere ragionevole, che uom cerchi la sua felicità, s'incomincia poi nuovamente a disputare dove codesta felicità sia riposta. Buon per me, che parlo ad un Cattolico, nè ho da temere ch'egli asserisca felice colui, che sollazzandosi per ogni prato, scapricciandosi d'ogni appetito, vive qui più da bestia che da uomo, e correr a rompicollo verso casa del diavolo. Ogni Cattolico sa non esser felicità sulla terra, se non nel tendere al cielo.
9. Ma questo sentimento sì vero e sì ragionevole ispirato al Cattolico dal catechismo, io lo trovo, la Dio mercè, in altri, che sebben non cattolici serbano pure un qualche raggio d'onestà, e che dicendosi pronti al sacrificio del piacere e del danaro, non isperano felicità, se non dall'ordine e rettitudine di loro operazioni. Frattanto costoro non hanno un catechismo che determini ciò che de[v]e dirsi ordinato ed onesto, ciò che disordinato e malvagio. Eccoci dunque nuovamente incagliati nel render ragione di ciò che si chiama l'ordine e del motivo per cui esso ci comanda obbedienza e riverenza. Cerchiamo dunque che cosa sia quest'ordine, dal quale gli uomini onesti derivano la loro riverenza ad ogni diritto.
10. In questo punto, lettor mio cortese, avrete avuto mille volte occasione di deplorare la poca chiarezza d'idee con cui suol discorrersi in società: si sente continuamente parlare del buon ordine e del disordine; ma quel ch'è buon ordine per gli uni è disordine per gli altri, e viceversa; e mentre Thiers in nome dell'ordine difende la proprietà, Proudhon invoca l'ordine per prender la roba de' ricchi, i cui possedimenti egli chiama disordine. Domandate a ciascuno de' due le rispettive sue ragioni; il primo vi risponderà necessità di natura essere il rispetto alla proprietà, l'altro all'opposto ordine di natura esser l'uguaglianza fra gli uomini. Seguitateli pure in tutt'i loro raziocinii, e troverete costantemente, che l'uno chiama assioma ciò che l'altro assurdità; ognuno taccia l'avversario di testardaggine, perchè niega ciò che tutti consentono, e così, mai non si può giungere all'ultima risoluzione definitiva de' problemi sociali.
E perchè? Perchè manca un principio comune da cui tutti partano, ed a cui tutti invariabilmente aderiscano.
11. Frattanto per altro osservate, ch'essi consentono in un presupposto, vale a dire, che l'ordine invocato altro non è finalmente, se non ciò ch'è conforme alla natura: il che è talmente impresso nel cuore di ciascun uomo, che alla natura finalmente si ricorre, come ad ultima ragione per convincere ogni ostinato. Supponete infatti che un vostro debitore negasse di restituirvi a suo tempo il danaro imprestatogli, a quali mezzi ricorrereste voi per piegarne la volontà? È chiaro, che da prima cerchereste una legge nel Codice. Ma supponete che nel Codice non fosse registrato il principio del vostro d[i]ritto, o che la legge stessa del Codice fosse tacciata d'ingiustizia, qual ripiego vi rimarrebbe a convincere il vostro avversario? M'immagino, che incomincereste a mostrargli «essere impossibile che sussista il commercio senza lealtà; chi gl'impresterà per l'avvenire s'egli non rende? Per qual titolo pretende egli arrogarsi l'altrui?» E così con altre ragioni dedotte dalla natura dell'uomo, della società, degl'interessi procurereste di rendere innegabile il vostro principio. Questa convenienza di un atto dedotto dalla natura degli elementi in cui si versa è quella, che chiamar sogliamo legge della natura, d[i]ritto naturale, ordine naturale.
12. L'ordine naturale base di ogni d[i]ritto, non è dunque altro, se non una certa convenevolezza, che noi ravvisiamo in alcune azioni. Ma questa convenevolezza come voi ben vedete, è un termine relativo. Quando io dico una tale azione conviene o disconviene, debbo avere in capo un certo scopo, a cui convenga o disconvenga; ed appunto per questo una medesima azione può dirsi secondo varii intenti or conveniente or disconveniente: al militare conviene procedere armato, al sacerdote disconviene, perchè lo stato militare ha per suo fine sostenere colla forza il d[i]ritto: il sacerdozio no; prendere un emetico conviene all'infermo che vuol guarire, disconviene al sano. Se dunque voi non determinate lo scopo per cui opera la natura, voi non potete mai dire conveniente, o disconveniente, ordinata o disordinata l'operazione naturale. Ed ecco appunto la ragione del tanto svario, quando si favella di ordine o disordine: mentre tutti sentono che la natura debbe avere un qualche scopo a cui ordina le sue azioni, e per conseguenza anche le azioni dell'uomo, non consentono per altro nel determinare qual sia questo scopo, e così stanno in perpetue divergenze intorno al mezzo, che conviene adoperare per conseguirlo. Ecco dunque l'altro passo che dobbiam fare per determinare chiaramente l'ordine naturale, ossia ciò che conviene secondo natura: dobbiamo determinare a quale scopo sia diretto tutto l'operar naturale. Determinato questo punto sarà facile accordarsi su ciò che conviene, ossia sull'ordine delle operazioni; determinato l'ordine sarà facile comprendere il d[i]ritto.
13. Or io non credo malagevole fra noi due determinar lo scopo dell'operar di natura, giacchè sarem presto d'accordo sul significato di questo vocabolo. Ammettete voi che la natura di cui parliamo altro non è finalmente, che un certo primitivo principio di movimento innestato dal Creatore in ogni essere nell'atto della creazione? Questa è la differenza fra l'operar naturale, e l'artificiale: il primo ha un intimo principio inseparabile dall'essere creato, il secondo viene a questo sopraggiunto dall'artificio umano. Così la molla d'un orologio è, come acciaio, naturalmente elastica, e tesa si rallenterebbe in un attimo; ma l'arte dell'orologiaro contrapponendovi de' contrasti, ne rallenta l'impeto naturale, e produce il moto artificiale dell'orologio. Chi ha dato all'acciaio quel principio di moto, quella tendenza a ripristinarsi che chiamiamo elasticità? Il Creatore. E chi gli ha dato quella lentezza e regolarità con cui misura le ore? L'orologiaro. L'operare naturale è dunque dato dal Creatore, modificato dall'artefice.
Se voi ammettete questa idea dell'operare naturale a distinzione dell'artificiale, io dissi che saremo subito d'accordo intorno al vero scopo di questa naturale operazione; la quale, come ben vedete, altro non essendo se non l'operazione comunicata immediatamente da Dio alla sua creatura nell'atto del crearla, altro scopo non può avere, fuor di quello ch'ebbe egli stesso il Creatore. Il Creatore infuse ne' corpi inorganici la gravitazione per collegarli nella mole dell'universo: ecco il fine della gravitazione naturale. Infuse ne' vegetabili la forza esplicatrice, assimilatrice, riproduttrice, per continuarne e moltiplicarne la specie: ecco il fine della naturale vegetazione. Infuse negli animali la sensazione per condurli colla spontaneità: ecco il fine della natura sensitiva. Così andate dicendo di ogni forza naturale: essa è sempre l'opera del Creatore nella formazione natìa ed ha per fine il fine del Creatore medesimo. Ed eccoci in tal guisa risaliti, come voi ben vedete, al supremo principio di ogni ordine, il fine dell'Ordinator supremo: determinato questo sarà facile a determinarsi e l'ordine universale, ed ogni ordine particolare, e per conseguenza anche l'ordine dell'operare umano: determinato quest'ultimo concepiremo facilmente una giusta idea del d[i]ritto.
14. Or lo scopo del Creatore nel formar l'universo non è difficile a ravvisarsi (specialmente dopo che Egli lo ha rivelato per fede) per poco che vogliam discorrere da galantuomo. Che cosa potea Egli desiderare, che cosa ottenere creando l'universo? Il navigante, che muove da un lido ha una spiaggia rimota a cui tende; il negoziante nel commerciare mira ad un danaro che ancor non ha; il militar che combatte palpita per la patria e vuol salvarla: ogni uomo insomma che opera, ha fuor di sè un obbietto che vuol conseguire. Ma il Creatore quale obbietto vedea fuor di sè prima della creazione? Egli non vedea nulla, nulla bramava, da nulla dipendea: tutto trovava in sè solo, il reale ed il possibile. A sè dovette egli dunque necessariamente mirare quando formò il disegno dell'universo, in sè trovava le ragioni finali non meno, che il disegno e le forze esecutrici.
15. Or qual ragione potea trovare in Sè, che lo inducesse a creare? Qual pro potea tornargli dalla creazione dell'universo? A Lui non altro, che quello di associare alla propria felicità le intelligenze create, e d'ottenerne gli ossequii comunicando a queste conoscimento ed amore; e poichè di queste intelligenze una fu da lui destinata ad avvivare il materiale organismo corporeo, a questo corpo dovette poi somministrare abitazione e sussidii materiali per sostentarsi ed operare. Ecco lo scopo del Creatore nel formar l'universo; scopo manifestato a noi dalla rivelazione, ma al naturale intendimento sommamente ragionevole ed evidente. Ed appunto per questo io non andrò per le lunghe spiegando codesta dimostrazione, la quale non suole incontrare gravi ostacoli presso persone giudiziose, benchè eterodosse o miscredenti. Ben gl'incontrerebbe gravissimi nel panteismo di che tanti delirano, e che formando dell'universo una necessaria evoluzione del germe divino, ne toglie ogni idea di libero disegno, e di causa finale. Ma siccome in questo assurdo ed empio sistema il diritto sarebbe impossibile ed inconcepibile; così volendo io rendervi ragione del d[i]ritto, debbo prescindere da codesto sistema, in cui concedo io stesso, che ogni d[i]ritto andrebbe naufrago nell'abisso di quegli errori.
16. Abbiamo stabilito, che la base del diritto si trova nell'ordine dell'operare naturale; che l'operare naturale è ordinato a compiere gl'intenti di chi creò la natura; che questo intento fu di avere degli ammiratori ed amanti; che formò l'universo materiale per dare alle intelligenze umane albergo e sostegno.
Ecco in quattro proposizioni la giusta idea di ciò ch'io chiamo ordine universale. Come vedete, l'intelligenza è per natura ordinata al conoscimento ed all'amore del Creatore; l'universo materiale ad albergo e sostentamento della intelligenza incorporata.
Da quest'ordine universale è facile dedurre quell'ordine che chiamiam morale, quello cioè secondo cui debbono essere dirette costantemente le operazioni libere (mores) dell'uom ragionevole: l'uom ragionevole debbe [= deve N.d.R.] usar le creature materiali in modo d'agevolare a sè medesimo ed alle altre intelligenze sue pari l'ammirazione e l'amore del suo Creatore, obbietto ultimo della creazione dell'universo. Chi ammette questi principii comprende tosto che voglia dire il d[i]ritto, comprende quella forza irresistibile, che il d[i]ritto esercita sopra ogni animo onesto. Appena ad uom ragionevole io fo intendere, che l'azione di cui lo richieggo è conforme al disegno del Creatore e necessaria a farLo riverire ed amare; e che il ricusarmela sarebbe fallire a Lui medesimo a cui tutto è dovuto, e da cui ogni felicità può sperarsi, io ne ho legata la volontà per modo, che dinegandomi la mia richiesta, viene a negare la sua natura medesima ed a porsi in guerra col Creatore.
Esemplifichiamo. Voi creditore mi chiedete il mio debito, io vi niego il vostro d[i]ritto dicendomi non obbligato. Come fate voi a persuadermi il vostro d[i]ritto e la mia obbligazione? Farete come fanno coi comunisti il Thiers o il Bastiat. «E vi parrebbe egli ragionevole, mi direte, che in questo mondo, formati tutti colla natura medesima, gli uni dovessero faticare per gli altri? Che le privazioni con cui l'uomo industre accumulò per la vecchiaia i frutti di lunghi sudori dovessero ridondar finalmente in pro d'uno scialacquatore infingardo, che altro non fece in sua vita, che rubare e godersela?»
Il quale argomento, sapete voi donde deriva finalmente tutto il logico suo vigore? Lo deriva da quest'altro: «Se fosse lecito naturalmente al mutuatario ritenersi il capitale imprestatogli, l'ordine di natura rappresenterebbe un Dio ingiusto; e l'intelligenza invece d'ammirarlo ed amarlo, ne inferirebbe col Proudhon, che Dio è il male. Or l'ordine di natura de[v]e farci conoscere Dio qual bene supremo. Dunque l'ordine di natura vuole che il mutuatario restituisca.»
Vedete? Tutta la forza del d[i]ritto con cui incalzate altrui, voi la ripetete dall'ordine che de[v]e regnare nel mondo, dal disordine che vi regnerebbe se si supponesse legge opposta al vostro d[i]ritto. E questo che abbiam detto del d[i]ritto d'un creditore ditelo pure d'ogni d[i]ritto naturale: sempre voi ricorrete, forse senza pure avvedervene, a quel gran principio dell'ordine: «se questo d[i]ritto non avesse forza secondo ragione, l'universo non sarebbe ordinato, il suo Creatore non apparirebbe nè ammirabile per sapienza, nè amabile per bontà.»
17. Ecco la ragione di quella specie di religione, che rende sacro ogni d[i]ritto: appena il d[i]ritto parla, tu vedi sorgere dietro di lui l'augusta e terribile maestà del supremo Fattore, che parla ed impera: e così appunto la vide per fin quell'empio sofista di Conisberga, il Kant, che dopo aver cancellato dalla realtà dell'universo l'infinito esser di Dio, volendo poi ritenere nell'ordine pratico quel sentimento obbligatorio, da cui ogni d[i]ritto acquista la sua gagliardia, dietro il fantasma del suo Imperativo categorico, fece sorger redivivo il temuto e combattuto Dio, fuori di cui gli veniva meno ogni idea di d[i]ritto e d'ordine mancando ogni principio d'inviolabilità. Se non che con quel suo ragionare al rovescio toglieva ogni forza a quel Dio medesimo che invocava a protezione del suo d[i]ritto. Per noi che assumiamo come certa d'altronde l'esistenza di Dio, irresistibile è l'argomento: «Dio comanda; dunque, creatura, obbedisci». Ma pel sofista di Conisberga questo argomento si riduce in tutt'altra forma; ed ogni uomo che voglia far valere il suo d[i]ritto così argomenta contro il debitore: «Io non so se Dio esista; ma se Dio non esistesse io non avrei tal d[i]ritto che pur mi compete, nè tu saresti obbligato; dunque Dio deve esistere per tutelare il mio d[i]ritto». Se quel cervello balzano avesse adoprato un tale argomento rispetto all'autorità umana avrebbe fatto ridere perfino le galline. Supponete che in una selva assalito da un ladro così gli avesse parlato: «Se ci fossero qui i gendarmi tu non oseresti togliermi la mia borsa; dunque devi credere che i gendarmi ci sono affinchè la mia borsa rimanga in sicuro.» Credete voi che il ladro si asterrebbe dal rubargliela?
18. Dal che comprenderete che il d[i]ritto, detto da noi poc'anzi una forza morale dell'uomo colla quale egli riesce a piegare l'altrui volontà, a parlare più propriamente dovrebbe dirsi forza del Creatore, cui l'uomo contrappone alle disordinate voglie d'altr'uomo per trattenerle dallo scapestrare, e metter sossopra il mondo morale. Nel che, lungi dal recare altrui il menomo danno, gli reca anzi il massimo vantaggio, non essendovi maggior bene per l'uomo, nè via più certa ad ottenere felicità verace, che quella via in cui lo indirizzò creandolo, la mano paterna del suo Fattore. Per lo che vanno stranamente errati il Romagnosi ed altri tali, che nel d[i]ritto e dovere null'altro sanno vedere, se non un perpetuo antagonismo, elemento di guerra indomabile per cui ogni uomo contrasta al suo simile. Se costoro appellano uomo ogni più rabbiosa passione, che scorra per le vene a questa parte animalesca di nostra natura, per cui ci assomigliamo alle bestie, oh allora sì, debitori e creditori, tutti siamo altrettanti mastini, ciascun de' quali come afferrò un osso, così ringhia e guarda in cagnesco ogni altro che gli si accosti per istrappargli dalle zanne la preda. Ma se siam uomini, vale a dire intelligenti, se l'intelligenza non respira che ordine; chiunque mi rappresenta l'ordine, mi mette in un'atmosfera respirabile, e quasi mi rende la vita: e qual è quell'uomo onesto (ma di onestà non ipocrita), che non si professi obbligato a chi lo campa dal commettere una ingiustizia, sia pure a costo di qualsivoglia interesse?
Quando dunque ad uom ragionevole voi rappresentate l'ordine, voluto dal Creatore nell'universo, voi gli offerite il suo bene e ne incatenate in certa guisa la volontà, con quella forza che suol dirsi il d[i]ritto.
19. Veggo per altro che potreste oppormi una difficoltà, la cui soluzione gioverà a farvi concepire viemeglio la giusta ed adequata idea del d[i]ritto. «Se l'ordine voluto dal Creatore, potreste dirmi, legasse le volontà umane, ad ogni apparizione dell'ordine queste si troverebbero legate. E pure quante volte l'ordine apparisce senza che la vostra volontà si senta per nulla necessitata eseguirlo! Voi state scrivendo, ed i vostri caratteri presenterebbero un ordine molto più perfetto, se fossero condotti colle proporzioni di abile calligrafo: vi credete voi obbligato a codesto ordine? La vostra camera non sarebbe ella più ordinata, se i mobili, gli scritti, i libri, tutto fosse disposto con ragioni di perfetta simmetria? E pure non vi credete obbligato da cotesto ordine. Anzi nello stesso indirizzo morale delle vostre operazioni tanto è più ammirabile l'ordine, quanto più sublime l'eroismo: obbligherete voi per questo tutti gli uomini ad essere eroi?»
20. L'obbiezione è gravissima; e dal non averne sentita la forza nacque lo stoicismo di coloro, che dalla sola bellezza della virtù traendo ogni forza obbligatrice, credettero potersi separare interamente la scienza della onestà da quella della felicità (Deontologia ed Eudemonologia). Ma appunto per evitare questo scoglio io vi presentai poc'anzi nel Creatore la fonte suprema d'ogni ordine e d'ogni d[i]ritto, sguardandolo non solo in quanto è dator dell'essere e della natura, ma anche in quanto egli è termine ossia obbietto di felicità piena ed assoluta. Se voi dimenticate quest'ultimo termine, mai non potrete concepire una giusta idea di ordine, di obbligazione, di d[i]ritto; voci tutte che esprimono la direzione dell'opera da un punto ad un altro: or come vorreste voi esprimere una direzione avendo l'idea d'un punto solo? Ogni direzione è una linea retta, ed ogni retta non infinita de[v]e terminarsi a due punti. La natura umana, principio di quel movimento di cui stiamo cercando la direzione, parte dalla mano creatrice in un determinato punto dello spazio e del tempo; ma verso dove? Tutte le altre creature, operando per ispontanea necessità, giungono allo scopo del Creatore senza conoscerlo; ma l'uomo che opera con libera volontà, conviene che lo conosca per muovere colà i suoi passi. E lo conosce in fatti, e lo sente, e per poco che rifletta su di sè medesimo, riconosce in sè una tendenza a felicità che ha dell'infinito, e che fuor dell'infinito non può arrestarsi nè satollarsi giammai. Solo dunque nell'infinito, solo in Dio può trovare riposo; ed appunto a quest'obbietto lo trae ineluttabilmente, non la necessità spontanea come i bruti, ma
la necessità di ragione evidente, cui la volontà ragionevolmente non può resistere.
Ecco l'ultimo compimento dell'ordine, dell'obbligazione, e per[ci]ò del d[i]ritto: se vedete che una data operazione è necessaria a conseguire un tal fine, voi non potete tralasciarla ragionevolmente: se la vedete opposta, non potete commetterla: se la vedete indifferente, siete libero all'uno e all'altro. Ed ecco perchè molti ordini, benchè innamorino lo sguardo dell'intelletto, non legano i passi della volontà: essa vede che quell'ordine non è talmente necessario nel morale andamento dell'universo, che anche senza di quello l'universo non possa dirsi opera d'un Dio sapiente e buono; anche senza di questo l'uomo non possa trovar felicità glorificandone il Creatore.
Stringiamo in pochissimi termini quest'analisi della obbligazione. L'elemento immobile, irresistibile è il desiderio indefinito di felicità: questo desiderio eccita l'uomo ragionevole a cercare l'obbietto infinito in cui saggiarlo: quest'infinito si trova in Dio solo; per giungervi conviene batter le vie che Egli segnò all'uomo nell'universo. Dunque se l'uomo vuol seguir la ragione deve, è necessitato moralmente a seguire queste: e tanto è gagliarda questa necessità morale quanto irresistibile la brama di felicità.
[CONTINUA]

NOTE:

[*] La materia trattata in questo capitolo potrà servire di schiarimento principalmente al Cap. III del 2° volume del Saggio teoretico di diritto naturale dal N.° 341 in poi.
[a] Titolo aggiunto dalla redazione del sito. N.d.R.

Nessun commento:

Posta un commento

La moderazione dei commenti è attiva.