VALORE DEL RAZIONALISMO IN ORDINE ALLA CIVILTÀ
R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.
La Civiltà Cattolica anno I, vol. I, Napoli 1850 pag. 159-182.
Chi considera i danni, le sventure, i disastri che seco recano le
violente rivoluzioni politiche, non sa finir di comprendere come
possano esserci di quelli che con tranquillo animo le vagheggino, e
volentieri vedrebbono la loro patria in quel turbine furioso ravvolta.
Che una simile indifferenza si scorga in torbidi agitatori, nelle cui
viscere un freddo egoismo abbia spento ogni senso di compassione o di
patria carità; che si trovi in illusi sapienti cui uno stolido
fatalismo faccia ravvisare in quelle scosse e nei guasti che
l'accompagnano il corso indeclinabile d'una cieca necessità; pur
pure, la cosa non ci stupisce gran fatto. Ma che uomini i quali
ammettono la dipendenza degli eventi dal libero concorso dell'arbitrio
umano, che ritengono tuttavia sentimenti di umanità e di amore,
sieno nondimeno partecipi della medesima indifferenza e direi quasi
stupidezza di cuore, questo è ciò che ingenera meraviglia.
Se ben discerno, la spiegazione di tal fenomeno si ritrova nella
credenza a che venner condotti questi uomini, i trambusti e le
calamità delle rivolture politiche non essere altro che
transizioni ad uno stato migliore, doversi accettare, non altrimenti
che i dolori del parto, in grazia del bene che loro tien dietro;
rassomigliarsi alle furie dell'uragano che dopo avere sconvolta
l'aria, spezzati alberi, flagellate marine, lascia poi più sereno
l'orizzonte, più limpide le onde, la vegetazione più
rigogliosa. Con siffatta persuasion nella mente essi di buon animo si
acconciano alla tempesta, ne tollerano pazientemente i rovesci, se non
anzi l'aiutano della lor opera, sulla speranza che aprano il varco a
un nuovo grado di civiltà e menino a uno stato più alto di
umano progresso.
Quand'anche questa speranza non fosse vana, tuttavia si potrebbe
muover quistione sul suo relativo valeggio [= valore
N.d.R.], istituendo un
paragone tra la grandezza del bene intorno a cui versa, e la grandezza
e copia de' mali che ad esso debbono spianare il cammino. Dippiù
potrebbe a ragion dubitarsi se non torni più utile
all'umanità aspettare il lento sì ma tranquillo svolgersi
della civiltà per sè stessa, in forza della sua naturale
tendenza, che affrettarne violentemente i progressi, con più
sollecito acquisto, ma per vie seminate di lagrime e di sciagure.
Sarebbon queste quistioni giovevolissime, stante la supposizione da
noi fatta, e degne d'essere con diligenza ventilate.
Ma di presente esse non hanno alcun pro, mercè che la
supposizione stessa vacilla, e seco trae in rovina la fabbrica che
sopra ci si vorrebbe innalzare. Imperocchè qual'è questo
bene, onde gli odierni rigeneratori ci lusingano con tanta pompa, e
che dovrebbe ottenersi mediante un cumulo di sventure? Non
altro che la civiltà prodotta dagli sforzi della pura ragione.
Non ho io mestieri di travagliarmi a mostrar ciò con nuovi
argomenti, avendo più che bastevolmente dimostrato nel precedente
fascicolo come gli uomini di cui parliamo sieno discepoli e promotori
del pretto razionalismo. Ora la
nuda ragione è affatto impotente a partorire la vera
civiltà, e sol può produrne una larva che abbarbagli con
fallace barlume, ma che in fondo non altro racchiuda che fitte
tenebre e corruzion desolante. Come vedete io vengo al
cardine dell'argomento e tronco d'un colpo l'albero dalla radice. Se
è vero, come dimostrerò ad evidenza, che la civiltà non
può venire nei popoli per opera del razionalismo, avranno
più costoro l'audacia di persuaderci a sobbarcarci volenterosi
alle inevitabili sciagure della rivolta per giungere al possesso della
loro utopia? Potremmo noi prudentemente rassegnarci a subire un
lavacro di sangue per acquistarci la beata rigenerazione, di che
vogliono regalarci?
I.
Il nome di civiltà è una di quelle voci quanto più
comunemente adoperate, tanto meno distintamente intese. Avviene di
questa parola quel che incontra a molti termini generati, i quali
esprimono un concetto universale bensì, non però tanto
semplice che non includa diversi elementi da renderlo molto complicato
e bisognoso di analisi. Accade allora che gli animi poco usi a
riflettere e a notomizzare le idee, se ne formino una nozione molto
confusa, ponendo mente al solo carattere indeterminato ed universale,
che è facile a concepirsi a prima giunta, senza badare alle note
circoscrittive che lo determinano. Quindi credendo averne acquistato
una compiuta conoscenza, la vanno liberamente applicando ai peculiari
subbietti che tolgono a disaminare, e ingannati dalla lor convenienza
con ciò che nell'idea era di vago e di comune, cadono leggermente
in fallaci giudizî.
L'indeterminato e generico che è contenuto dall'idea di
civiltà si è l'espressione di un certo progresso che siasi
fatto dall'uomo, di una esplicazione che abbia avuto delle naturali
sue forze, di un qualche perfezionamento a cui egli sia pervenuto. Ma
a pienamente determinarla e non restar nell'incerto, ei non basta
concepire un qualunque sviluppo delle naturali attitudini, un
qualunque passo dato nel cammino dell'umana perfezione. E chi direbbe
in rigore di termini civile quel
popolo, presso cui fossero in fiore le arti, svolta l'industria,
attivo il commercio, ma un duro giogo pesasse sul collo
degl'individui, e una crassa ignoranza ottenebrasse di denso velo i
veri più alti e più essenziali alla vita dell'intelletto?
Chi direbbe, senza timore di venire smentito, civile e colta una
nazione, dove fossero dolci i costumi, agiata la vita, splendido il
lusso, ma una turpe dissolutezza bruttasse la morale, e dove la
soavità di maniere s'ingenerasse non dall'amore all'onesto, ma
dalla mollezza e dallo snervamento dell'animo? Non ogni lindura
adunque di culto, non ogni splendore di vita, non ogni copia di beni
si chiarisce bastevole per costituire nei popoli la civiltà.
Attenendoci alla semplice definizion nominale che nasce
dall'etimologia del vocabolo, pare che l'uman genere non altro abbia
voluto intendere per civiltà, se non la perfezione che acquista
l'uomo in forza dell'essere di cive,
di cittadino. Ora senza
travagliarci con troppo sottili discussioni, e senza impegnarci in una
definizione scientifica, che potrebbe abbagliare coll'apparenza della
sua precisione, io credo che fermandoci sull'enunziato concetto, noi
potrem di leggieri rilevare i caratteri che alla civiltà sono
indispensabili, e che bastano a rischiararne e distinguere la verace
idea.
Se la civiltà importa una perfezione ed un progresso proprio
dell'uomo, essa non può prescindere dall'ordine e dalla direzione
voluta dalla natura di questo, senza falsare il proprio concetto e
senza perdere il dritto d'appropriarsi quel nome. Ora l'uomo non
è solamente un essere fisico, ma un essere morale, più
morale anzi che fisico, in tanto fisico in quanto morale; essendo
certo che in lui il corpo è ordinato allo spirito, ed i sensi
alla ragione. Adunque quale che sia l'esplicamento che facciasi della
sua attività coi vantaggi che ne rampollano, esso non sarà
proprio dell'uomo, non sarà per conseguenza umano, se oltre al
ben essere del corpo non apporti eziandio il ben essere dello spirito,
oltre il perfezionare i sensi non perfezioni altresì la ragione,
oltre alla felicità materiale non arrechi ancor la morale. Anzi
l'accordo tra questi due elementi, materiale e morale vuol essere in
perfetta consonanza colla natura del subietto a cui si riferisce, e
per[ci]ò convien che il morale primeggi o
sovrastìa all'elemento materiale, che tutto, quanto esso è,
vuol essere a quello diretto ed ordinato.
Nel che a non togliere abbaglio, avvertite che io non dico monopolio
o tirannia, ma sol
predominio dell'elemento
morale. Con ciò voglio dare ad intendere che sebbene la parte
primaria e più principale della civiltà sia la purezza e
santità de' costumi, tuttavia non si esclude, anzi è
richiesto, come integrale secondario e subordinato il ben essere
eziandio materiale e lo sviluppo armonico di tutta l'attività
umana. Che però dove si desse un popolo, il cui intelletto fosse
sufficientemente illuminato, almeno in ordine alle verità
più importanti per l'uomo, e la volontà informata d'ogni
più bella e squisita virtù, ma che fosse povero d'arti,
d'industria, di commercio, e difettasse d'agî opportuni alla vita
fisica; esso godrebbe, non può negarsi, d'una perfezione
invidiata e sublime, ma a rigor di termini non potrebbe dirsi civile
nel senso completo della parola. Miralo in quella sterminata
moltitudine di solitarî che nei primi secoli della Chiesa
popolarono le solitudini dell'Arabia e dell'Egitto. Essi formarono una
società sovraumana, nella quale la perfezion morale dell'uomo e
l'esercizio delle più eccelse virtù fu portato ad un
altissimo segno, al quale sarebbe sembrato pazzia il pensare che
l'uomo potesse aggiunger giammai. Essi non pur dominarono i sensi ma
li annientarono in certa guisa, e fecero sparire la carne in faccia
allo spirito; essi instituirono sulla terra una vita emulatrice di
quella degli angeli in cielo. Potresti nondimeno dire per questo che
la vita de' padri del deserto presentasse l'idea della coltura dei
popoli che vogliam significare quando da noi si proferisce il vocabolo
civiltà? Fu quella una
perfezion d'altro genere, un progresso relativo al solo spirito
dell'uomo, una civiltà, se così piace chiamarla, eccezionale
e d'un ordine superiore all'umano, di cui il Cristianesimo diede prova
per mostrare praticamente la potenza illimitata dello spirito sotto
gl'influssi della divina grazia, e persuadere coll'irrepugnabile
evidenza dei fatti la possibilità di contener le passioni dentro
i confini dell'onesto, mentre da tanti si giugneva perfino a
distruggerle negando loro ogni pascolo comechè legittimo e
temperato. Ma questo, come dissi, è eroismo straordinario, è
l'eccesso della forza spirituale che assorbisce le inferiori tendenze,
è la potenza della grazia che captiva interamente la natura,
è eccezione del corso consueto ed umano, che perciò non
è cosa propria di tutti ma sol di alcuni. La perfezione comune,
la perfezione conveniente all'uomo preso in massa e secondo il
naturale suo stato dee includere lo sviluppo ordinato di tutte le sue
attitudini, i beni proporzionevoli a tutto il suo essere, e per[ci]ò
non involge dominazione assoluta ma sol prevalenza dello spirito
riguardo al corpo, della ragione per rispetto ai sensi.
Nè questa prevalenza dell'elemento morale de[v]e
procedere da solo privato sforzo dell'individuo, ma de[v]e
dipendere dall'influenza stessa sociale; altrimenti sarà
perfezione dell'uomo, ma non quella che merita nome di civiltà.
La civiltà essendo derivata da cive,
ed esprimendo, come sopra notammo, la perfezione prodotta nell'uomo,
mercè l'essere di cittadino, involge sempre un rapporto alla
comunanza civile, in quanto sempre riguarda l'uomo sotto la condizione
ed il rispetto di sociale. Non basta che questi preso isolatamente
dagli altri si consideri perfezionato, perchè possa dirsi
incivilito. Un perfezionamento relativo al solo individuo, sia uno o
molti, senza dipendenza da cause sociali, senza relazione ad altrui,
che non si manifesti, non si propaghi, non influisca sul miglioramento
d'altri individui congiunti insieme a convivere, costituisce un
semplice progresso privato non pubblico, appartiene alla coltura
dell'umanità considerata in sè stessa non in comune
consorzio, rende la persona più
umana ma non più
civile, produce in somma nell'uomo un grado più alto di
svolgimento, ma non costituisce la civiltà. Acciocchè questa
si ottenga, fa d'uopo che la perfezione venga negl'individui in quanto
essi fanno parte della comunanza sociale, sia prodotta da cause
sociali, si connetta coi sociali ordinamenti, venga informata di
sociali rapporti.
Nondimeno qui vuole usarsi cautela per non cadere in un errore
gravissimo. Dal richiedere la civiltà d'esser vestita di
esteriori attinenze, considerando l'individuo sotto il rapporto
sociale, non si de[v]e inferire che dunque essa non si
propone per supremo suo scopo l'individuo medesimo, ma miri
ultimamente al corpo sociale in quanto formi in certa guisa un tutto
astratto, il cui ben essere sia separato dalla felicità dei
singoli che lo compongono. La stessa parola uomo
vale a camparci da questo scoglio. L'individuo
umano entrando a far parte della società, sebbene rivesta
novelli doveri, e modifichi e limiti i suoi d[i]ritti
e la sua libertà in maniera da render possibile la coesistenza
dei d[i]ritti e della libertà degli altri coi
quali si associa: tuttavia non cessa di essere il termine a cui in
giusta proporzione il comun bene, dall'associazione inteso, si
riferisca. E strano sarebbe il considerarlo come un semplice mezzo
unicamente inteso per la prosperità dello Stato, e quasi un
veicolo per cui il ben essere quasi affin di fermarsi nel gran tutto
sociale. Ciò nasce da una doppia ragione: dalla dignità
personale propria dell'individuo umano, e dalla eccedenza che essa
ha rispetto a qualunque consorzio meramente civile e terrestre.
Comechè sia vero che in qualunque unione la parte debba cedere
al tutto, nondimeno questo universale principio nella sua concreta
applicazione va inteso secondo la natura di essa parte e di esso
tutto, sicchè non contrasti ma consuoni all'ordine della ragione.
L'individuo umano fa parte della società, ma non per questo
dismette la propria essenza, che è di esser persona non cosa,
fine non mezzo nell'universo. Il perchè egli non può per
qualunque fatto, che sopravvenga alla propria natura, convertirsi in
mero strumento di bene altrui, qual che sia l'eccellenza di questo
nuovo essere che si formi. Dippiù l'individuo umano ha un immenso
destino da compiere, un destino che stendesi al di là
dell'angusto giro del tempo. Egli porta l'immagin di Dio scolpita nel
suo spirito; egli ha un elemento di esistenza immortale; egli è
superiore a quanto ci ha di caduco e di terreno. Mercè la parte
razionale ed eterna dell'esser suo egli esce fuori dei confini della
vita presente, travalica tutto l'ordine materiale, mette il capo in
una sfera superiore ed elevata, dove ha rapporti immediati e morali
con la stessa suprema cagione dell'universo, e formando colle altre
intelligenze un consorzio che sfugge a qualunque potere derivato dalla
terra, vive sotto il correggimento e l'autorità di Dio stesso. Or
la società civile è fattura dell'uomo, ristretta alla sola
temporanea esistenza degl'individui che la compongono, nasce,
grandeggia, e finisce col tempo, non ha potere che sopra i soli
esterni rapporti di uomo ad uomo. Laonde sebbene, considerata in
quanto alla parte per così dire esteriore, a fronte
dell'individuo umano spieghi grandezza gigantesca e colossali
dimensioni; pure, considerata quanto alla parte spirituale ed interna,
diventa nana, s'impiccolisce, si annienta, atteso la superiorità
dell'animo indipendente che alberga in ciascun uomo. Onde conseguita
che essa non può giammai dominare e reggere tutto l'individuo, ma
solo gli atti esterni riferibili alla vita terrestre e transitoria,
senza rompere per altro o guastare i rapporti che questa stessa
include in ordine alla vita avvenire, indefettibile, e subordinata
alla sola divina potenza. Di
che si pare eziandio quanto sia ragionevole e conforme all'ordine
voluto dalla natura che il potere civile nell'ordinare i rapporti
degl'individui nella società temporale e terrena si supponga
illuminato e retto da una norma superiore che guardi al fine ultimo
di tutto l'uomo e si riferisca alla vita avvenire; norma che a lui
venga dettata da un potere più alto, da un potere di diverso
ordine, da un potere di origine divina, la cui efficacia non sia
ristretta tra i limiti della sola vita presente. Ma di
ciò in altro luogo.
Raccogliendo adunque il molto in breve convien conchiudere che la vera civiltà propria
dell'uomo de[v]e contenere sempre il predominio
dell'elemento morale in maniera pubblica, cioè in forza di
ordinamenti sociali, e de[v]e cercare come scopo il
bene degl'individui rispettandone la dignità personale.
Imperocchè, l'ordine di natura ci apprende che in ultima
analisi non è l'individuo per la società, ma la
società per l'individuo; il quale si unisce ad altri in civil
comunanza per meglio conseguire coll'altrui presidio quella
perfezione, cui da sè solo non potrebbe raggiugnere.
Ora una civiltà, qual noi l'abbiamo descritta, è
impossibile che nasca dal razionalismo e dalle sole forze dell'uomo
abbandonato a sè stesso, comechè altro ne dicano i baldi
nostri progressisti, lodatori ampollosi del valore della ragione. A
render cospicua questa mia assertiva io potrei forse con lode di acuto
sillogizzatore valermi di sottili argomenti tolti dalla contingenza e
defettibilità naturale dell'uomo, dalle piaghe occulte del cuore,
dal fascino degli oggetti sensibili, dalla forza volubile
dell'immaginativa, dall'impeto che seco recano le passioni e dalle
attrattive che esercitano sulla troppo debole volontà. Ma qual
pro, se la dimostrazione sembrerebbe allora vagar per le nuvole,
noierebbe colle sue sottigliezze, e non uscendo dalla sfera di
metafisiche astrazioni aprirebbe il campo a infinite repliche e a
infiniti cavilli? Meglio sarà dare al discorso un solido
fondamento trasportando la quistione dall'astratto delle idee al
concreto dei fatti, che è il campo in cui spazia ciò che non
è chimerico ma reale.
La ragione umana fu messa alla prova, ebbe campo di sperimentar le
sue forze, nè pel corto spazio di pochi anni, ma pel lunghissimo
tratto di ben quaranta secoli, quanti ne corsero dalla colpa del primo
padre fino alla venuta del divino Riparatore. Pertanto qual
civiltà fruttò ella col suo lungo e faticoso lavoro? Non
altra che la pagana. Or la coltura pagana fu affatto orba delle due
doti, divisate di sopra come condizioni indispensabili a costituire
una civiltà, verace ed umana. Nè altri creda che a
procurarne un facile convincimento io intenda farvi guardare ai popoli
orientali, dove la civiltà, a guisa di pianta che per difetto di
umore isterilisce ed avvizza, sotto il despotismo asiatico non ebbe
libero campo di esplicarsi, ma soffocata sul primo suo crescere si
avviò in certa guisa dalla culla al sepolcro. No, io son contento
che a formar giudizio della civiltà pagana, voi la contempliate
nel suo pieno giorno, nel massimo grado di vigoria a cui venne, sotto
il limpido aere della libertà europea, nelle famose repubbliche
di Grecia e di Roma, sospiro e delizia de' moderni rigeneratori
d'Italia. Io oso osservare che quivi ancora mirata, comechè
spiegasse ogni suo vigore, e splendesse nel suo apogeo, tuttavia si mostrò fiacca ed effimera,
perchè ristretta al solo ordine materiale corruppe affatto e
perdè l'elemento morale, e disconobbe interamente la
nobiltà dell'individuo umano convertendolo in mero mezzo e
strumento di grandezza politica.
E quanto al primo di questi caratteri, un fenomeno salta subito agli
occhi dei riguardanti, ed è che sì
i Greci come i Romani non sepper mai accordare insieme gli agi della
vita fisica colla purezza della vita morale, e far camminar di
conserto gl'incrementi dell'una coll'ingrandimento dell'altra. Essi
passarono costantemente dalla rusticità alla mollezza, dalla
ferocia alla voluttà, dalla barbarie alla corruzione.
Temperati abbastanza, almeno, quanto all'assenza di grandi vizî,
finchè dimorarono in uno stato di semplicità infantile, non
seppero contenersi tra i limiti dell'onesto, come prima uscirono di
fanciullezza, e ammorbidendosi nei costumi tramutarono coll'opulenza e
con la scienza l'antica penuria ed ignoranza. Rimontando ai tempi di
Minosse o di Codro, di Cincinnate o di Fabrizio, quando pochi iugeri
di terreno formavano la privata dovizia d'ogni più cospicua
famiglia, e il dittatore passava dal reggere la cosa pubblica a
coltivare il proprio campo, tu ti scontri in molti esempi di
austerezza e probità non comune. Ma appena ti discosti alcun poco
da quei tempi di rusticità primitiva, e ti avvolgi all'epoca dei
costumi soavi e raffinati, della grandezza di signoria, della copia
dei comodi per la vita piacevole, e il volto ti si coprirà di
rossore alla vista del rotto e dissoluto vivere a che si venne, delle
ingiustizie, delle laidezze, che imbestiando gli spiriti produssero
una universale corruttela. Sembra
manifestamente che tutto il progresso della civiltà pagana
fosse in ordine alla voluttà, che l'elemento morale dopo aver
raggiato di fioca luce quando l'allettativo del senso non
l'adombrava, si spegnesse poi del tutto, e che quegl'infermi palati
non sapessero gustare il piacere senza perdere ad un tempo ogni
gusto della virtù.
Che se pur qualche lampo di virtuosa azione, qualche fatto laudevole
vien a rompere di tratto in tratto la spiacente monotonia di quella
vita molle e dissoluta, essi non sono che fatti isolati, senza nesso
scambievole, senza influsso o dipendenza sociale, e ti porgono
immagine d'un quadro d'ogni dove caricato di ombre, dal cui fondo si
spiccano alcune figure mal delineate e prive d'attinenza col tutto.
Del resto la moralità
pubblica era svanita, e fanno orrore le
scostumatezze invalse nell'uso e talvolta sancite ancor dalle
leggi. Mi renderei increscevole se discorrendo per
le singole parti della morale e del diritto, segnalar volessi tutti
gli sconci che dall'universale si pensavano e praticavano, sia in
ordine alla proprietà e alla vita degl'individui, sia per
riguardo all'uso del matrimonio e alla condizion della donna, sia
rispetto alla educazion de' figliuoli e alla potestà paterna, sia
finalmente per rapporto alla ragion di fare la guerra a profittare
della vittoria. Ma stando a quel solo che è più nauseante e
grossolano, e che più apertamente si manifesta col lezzo che
spira e coll'orrore che ingenera, qual
animo onesto può senza indignazion ricordare come presso quelle
coltissime nazioni non pure la fornicazione non si reputasse
più vizio, ma, turpitudine ancor più nefanda, si
tollerasse come mezzo acconcio a fomentare lo scambievole affetto?
Nè la verecondia trovava difesa alcuna nel pubblico
insegnamento: chè scuola di oscenità erano i teatri fuor
d'ogni credere scorrettissimi, incentivo al mal costume gli
esercizî ginnastici dei giovanetti e delle donzelle, fomento
alla lascivia le cerimonie del culto, e i sacrifizî; nei quali,
secondo l'espressione di S. Agostino, non pure, i volatili e i
quadrupedi e le vite degli uomini, ma ciò che è più
scellerato, lo stesso pudore umano immolavasi [1]. E dovrem noi ricordare le immagini lascive, le
feste licenziose, gl'impuri misteri di Adone e di Priapo, le schifose
prostituzioni solite farsi nel tempio di Giove Ammonio, le meretrici
sacre a Venere in Atene ed in Corinto? Ben
può dirsi che i pubblici costumi e le pubbliche massime
formavano come un'atmosfera pestilenziale che d'ogni parte infettava
la società, e da cui anche malgrado suo conveniva che ciascuno
restasse ammorbato.
Ma niente ci chiarisce con maggiore evidenza la corruzione avvenuta
della morale presso quei popoli, quanto il mostruoso concetto che
della divinità si avevan formato. Se in Oriente i savî eran
caduti nel panteismo e la plebe avea divinizzate le singole parti
della natura, in Occidente i primi filosofi furono atei ed i popoli
sotto la scorta de' loro poeti crearonsi i proprî Numi. Ma, come
era naturale a seguirne, li crearono a propria immagine. Per[ci]ò
presso essi non ci fu Dio che non avesse e moglie e figliuoli e nipoti
e lunga serie di congiunti od affini. Laonde chi imprendeva a tesserne
le genealogie o a descriverne le parentele, incontrava non lieve
difficoltà a ravviare il bandolo di così intricata matassa.
Pur poco male, se non li avessero assoggettati alle stesse passioni
degli uomini e macchiati d'abbominevoli vizî. E chi non pospone
l'antico Olimpo a qualunque consorzio più disfrenato, il quale
certo non potrà noverare altrettante discordie tra i suoi
componenti, altrettanto odio, altrettante ire, altrettante risse,
altrettanti adulteri, ed incesti, e tradimenti, e vendette? Non credo
andrebbe lungi dal vero chi opinasse che fosse inventata quella dimora
dei Numi per far che l'uomo prendesse noia del cielo, e più
tenacemente aderisse alla terra. Se pur non voglia dirsi che fosse un
ripiego per sottrarre quei mostri dal carcere o dal supplizio a cui un
sentimento innato di giustizia avrebbeli quaggiù condannati. E
non meritava la pena capitale un Giove, che mutilava il genitore e
dalla cui impurezza niun talamo o fiore di pudicizia era securo? Anzi pareva che nè anche il
sesso fosse schermo bastevole, come può argomentarsi dal
ratto del leggiadrissimo Ganimede. [Il p. Liberatore fa qui
riferimento alla pederastia;
era normale d'altronde che un cattolico avesse ritegno di far
anche solo un vago riferimento al peccato
impuro contro natura, il quale all'epoca sua
non era ancora sancito pubblicamente per legge dallo
Stato. N.d.R.] Non era degno
almeno del carcere un Apollo che vivo scorticava il rivale, o un
Mercurio proteggitore di ladri, ladro ancor esso, un Bacco ingordo,
beone e promotore d' ubbriachezza, o una Venere lasciva ed adultera?
Non pare che questi ed altri infamissimi, che costituivano gl'Iddii
dei popoli più inciviliti, fossero sollevati agli onori divini
per isciogliere sul loro
esempio ogni freno ai costumi, per estinguere ogni rimorso
nell'animo e tergere ogni rossore dal volto, mentre non ci
era azion detestabile che non avesse il suo protettore nel cielo,
nè turpitudine più schifosa che non dovesse venire onorata
per debito di religione? [2] E
farem noi le meraviglie se nel colmo della civiltà romana la
sfacciataggine giungesse a tale, che l'imperatrice Messalina
prostituisse quasi per giuoco le più nobili donzelle nei pubblici
lupanari, senza che i parenti ne muovesser richiamo, e l'imperatore
Nerone assembrasse il senato per deliberare intorno alle sue [di
lei, N.d.R.] nozze col liberto
Pitagora?
In tanta colluvie di rei costumi, in sì fosco tenebrìo
della mente tornerebbe ridicolo il chiedere in quale stima avessero la
virtù. Presso i Romani, che più di tutti inoltrarono nella
coltura, mancò fino il nome per significarla; giacchè virtù appo loro
propriamente esprimeva la robustezza ed il valore. Certamente Virgilio
volendo darcene un modello nel suo Enea, da lui proposto come ideale
della pietà, ci presentò tale un eroe, da disgradarne
qualunque capo delle più selvagge tribù dell'America. Tranne
l'amore al proprio padre e un feroce coraggio nelle battaglie, tu non
altro vi scorgi che stolta e crudele superstizione, fonte di mille
ingiustizie e di mille vituperose azioni. E qual idea di virtù ti
dà un uomo che viene ad impossessarsi con violenza di un paese
non suo, che muove guerra e rapisce la sposa a un pacifico principe,
che scanna gli uomini sull'altare de' suoi numi, e trucida di propria
mano il nemico già inerme e supplichevole?
So che molto si è detto in commendazione delle celebratissime
leggi di Licurgo e di Solone, descritteci con tanta venustà di
stile da Senofonte. Ma basta la più lieve considerazione per
convincersi che salvo sapienti ordinamenti per procurare la robustezza
del corpo e tutelare da mutazioni pregiudizievoli la cosa pubblica,
niente contenevano che valesse ad appurar la morale [= purificare la morale N.d.R.]
e imprimere virtù sincere negli animi de' cittadini. Tutto
quell'apparato di sapienza non usciva dagli stretti confini della
politica, e purchè producesse un forte amore di patria, attutava
ogni altro sentimento del cuore, e spesso poneva eziandio in non cale
l'onesto. Testimonio la licenza degli esercizî ginnastici [=
con la scusa di praticare la ginnastica si giunse ad ogni pratica
licenziosa, omosessualità compresa. N.d.R.],
il premio sancito in Lacedemone ai furti fatti con destrezza, ed il
comando d'imprestare la propria donna a' più giovani, affin di
migliorare la razza, siccome farebbesi in un armento. Del resto esse [le
suddette leggi N.d.R.] in
Atene non ebber vita più lunga di cinquant'anni; e a Sparta, dove
la loro austerità materiale durò più secoli, non
valsero che a formare ipocriti nella virtù, finchè da
Filopemene vennero abrogate del tutto, siccome non atte oggimai che a
produrre ferocia, turbolenza e sfrenatezza.
Mentre l'ordine morale veniva così depresso, s'innalzava
all'incontro l'ordine materiale grande e pomposo, con quanto può
immaginarsi di opulenza, di lusso, di splendore, di squisitezza nei
mezzi di soddisfar ogni voglia e procurar ogni piacere. Di troppo mi
allargherei, se volessi dipingere anche in iscorcio i magnifici
palagi, le amene ville, le cene voluttuose, gli sfoggiati
spettacoli, le sopraffine delizie che formano la parte maestosa e
splendida della civiltà pagana, e nella quale si veniva
consumando una vita molle e stemperata. Ci furon anche a que' tempi,
non lo dissimulo, parecchi uomini di severi costumi, di cui la storia
ha trasmesse e magnificate le laudi. Ma lasciando stare che i loro
panegiristi spesso ne esagerarono il merito, come era costume di quei
scrittori, tuttavia stando a quello stesso che ne raccontano si scorge
abbastanza che quegli eroi sì decantati non
cercarono che una probità esteriore, che valesse a procacciar
loro credito di virtuosi, e una certa continenza da eccessiva
sregolatezza, che servisse al fine di meglio e più durevolmente
fruire della materiale beatitudine. Insomma sembra che essi
praticassero il sistema epicureo, che stabilendo per ultimo scopo la
voluttà, inculcava nondimeno la virtù come mezzo a
procurarla, nè a dir vero si debbe ad Epicuro il merito
d'averlo inventato, quanto piuttosto d'averlo ridotto a teoria
corredandolo di scientifiche forme.
II.
Per altro in mezzo a tanta prostrazione della morale, a tanto
predominio del senso sulla ragione, una virtù folgoreggia presso
gli antichi in sommo grado, ed è l'amor della patria, portato ad
essi al segno più sublime di eroismo. È questo il tratto
più fulgido e più magnifico della civiltà pagana,
argomento di sfoggiatissime lodi e che tuttavia abbarbaglia colla
scintillante sua luce. Contuttociò se invece di lasciarsi
abbacinare dall'effimero chiarore che spande, noi cerchiamo colla
riflessione di addentrarne il fondo e la sostanza, ci avvedrem di
leggieri che il patriottismo pagano tanto è lungi che sia
argomento di civiltà che anzi è argomento di barbarie,
costituendo la piaga fondamentale di quei tempi corrompitrice d'ogni
coltura. Esso non si tenne nei giusti limiti, ma trasandò, ed
uscendo fuori della norma della ragione non fu amore, ma culto,
adorazione, idolatria della patria, a cui sagrificò tutti i
diritti dell'uomo e l'alienabile dignità della sua razionale
natura.
Condizion primitiva, condizione
indispensabile, condizione per eccellenza d'ogni civile coltura si
è che la società si ordini a vantaggio e felicità
degl'individui che la compongono, nè mai perda di vista il
valore assoluto dell'uomo. Ora, chi ben consideri il patriottismo
pagano, che uomini insensati vorrebbero riprodotto tra noi,
disconobbe interamente questo carattere essenziale della
civiltà, annientando onninamente la personalità umana e
formando della patria un idolo mostruoso, il quale facesse per
sè il monopolio d'ogni dritto, e rimpetto a cui ogni altro
essere si dileguasse, ogni legittima pretensione svanisse.
Ciò primieramente si manifesta dal dispregio vilissimo in che
tenevano gli altri popoli, sovvertendo ogni principio di carità
internazionale. Presso i Greci il Greco era ogni cosa, lo straniero
era niente; presso i Romani la dignità di cittadino formava
l'uomo, chi n'era privo non era degno di alcuna stima, nè
meritava considerazione veruna. Ed era strano veramente il vedere
essere barbaro ad un tempo il Romano al Greco ed il Greco al Romano.
Vero è che per una felice incoerenza l'uomo pagano non fu sempre
fedele alla fierezza di questo principio, e molti tratti di
umanità verso gli estranei ci ricorda la storia. Ma ciò
significa che sovente la bontà della natura superò
l'inveterata prevenzione, e che il buon senso in alcuni casi fu
più forte della logica. Nel rimanente la legge universalmente
ammessa era quella, e l'appartenere o no alla patria formò
l'unico criterio del rispetto e dell'amore che dovesse portarsi ad
ogni uomo. Quindi si reputò legittima la guerra intrapresa a solo
scopo di conquista, perchè ne veniva ingrandimento alla patria.
Quindi le devastazioni, gl'incendî, le stragi indistinte di tutti
nelle città debellate furon credute mezzi giusti di rappresaglia,
perchè l'avversare la patria dei vincitori toglieva ai vinti
eziandio imbelli e disarmati ogni dritto di proprietà e di vita.
Quindi tutto fu stimato lecito contro i popoli di diversa favella e di
diverso linguaggio, tanto solo che così imperasse l'ira o
l'interesse della propria patria. Le ceneri della già ricca e
potente Troia, le fiamme di Corinto e di Numanzia ti danno un saggio
delle infinite vittime immolate all'idolo inesorabile. E tanto
infelice quanto rinomata Cartagine! Fu più volte agitata per lei
nel senato di Roma la quistione di vita o di morte, e tra quei
savî sì celebrati qual era il criterio al cui peso libravasi
sì gran sentenza? Il vantaggio o il danno che poteva derivarne
alla patria; sostenendo Scipione Emiliano che l'esistenza d'una rivale
fosse utile alla repubblica, e Catone per converso che ne
compromettesse la gloria. Prevalse per l'autorità dell'uomo
l'atroce consiglio, e si vide senz'altro motivo, da quello in fuori
della semplice gelosia, provocarsi dai Romani la terza guerra punica,
che finì col totale sterminio delle mura e dei cittadini
Cartaginesi. Che però non è meraviglia se vediamo nelle
antiche guerre opporsi dai combattenti sì accanita resistenza, da
lasciarsi, anzi che cedere, trucidar tutti sul campo. Il che dai meno
perspicaci viene attribuito a valore, ma in sostanza era disperazione
feroce, in quanto si sapea qual reo governo avrebbon d'essi fatto i
vincitori dopo la zuffa, e di cui quell'antica formola: guai
ai vinti esprimeva con arguto laconismo l'atrocità.
Un'altra prova di questo vero ci vien porta da quella flagrante
violazione di naturale giustizia sì universale e sì diuturna
presso i pagani, volli dire la schiavitù. Siccome la patria era
tutto e in sè assorbiva non pure i poteri politici, ma i diritti
umani; così chi per nascimento o sventura non era cittadino, non
era uomo. Esso poteva impunemente venire associato in qualità di
mero strumento dell'altrui privato ben essere; trattarsi come cosa,
spoglia affatto di merito personale, adoperarsi qual mezzo di
utilità o di piacere. Nè pochi erano gl'infelici, ai quali
nelle più colte società gentilesche toccava una sorte
sì lagrimevole. In un novero che se ne fece in Atene si
trovò che essi erano due terzi degli abitanti. Gl'iloti a Sparta
furono sì numerosi, che quantunque fosse loro interdetto il
portar armi, pure con la semplice forza che produceva la moltitudine
furono più volte sul punto di rovesciare l'ordine pubblico. Ed a
Roma i mancipî crebbero a tale eccesso, che venuto il Senato in
pensiero di assegnar loro negli abiti un distintivo, se ne astenne per
la ragione che così avrebbero avuto un mezzo di conoscere lo
sterminato numero in che erano, ed accorgersi delle proprie forze.
Certo se ai cittadini apparteneva solamente il badare agli affari
della guerra e della pace, ed era loro vietato l'attendere ai mestieri
ed alle arti lucrose, ben si vede come tutti i coltivatori delle
campagne, gli artefici, gl'industriosi d'ogni maniera non dovevan
esser che schiavi. E questi che formavano co' proprî sudori il
più ed il meglio della dovizia territoriale, che concorrevano con
una vita piena di stenti al ben essere della società, doveano
venir esclusi non solo da ogni ingerenza nella politica, ma dai
diritti altresì civili, e, orribile a dirsi! dai diritti eziandio
umani!
Agguagliati alla condizione dei bruti, dopo il giornaliero travaglio,
si ricoglievan la notte a prendere ambascioso sonno, la più parte
nei sotterranei, con appena onde sfamarsi: mentre l'opulento Signore
crapolava alla mensa fatta opipara dai loro guadagni, sdraiato
mollemente sopra letti di porpora e di broccato. Quanto essi avevano,
donna, figliuoli, vita, era di pertinenza del loro padrone, che poteva
a volontà venderli, tormentarli, ucciderli, senza che avesse a
render ragione del suo capriccio a veruno. E chi può senza fremer
di sdegno ricordare lo schiavo dato a mangiare alle murene dal suo
padrone per ciò solo che avesse infranto un vaso, i quattrocento
servi fatti scannare in un giorno perchè fu trovato assassinato
il prefetto Pedanio Secondo? Per iscusare poi tanta barbarie
aggiungevano alla crudeltà il disprezzo, fondando il loro diritto
sopra questo principio, che gli schiavi fossero una razza vile,
distinta moralmente e fisicamente da quella degli uomini liberi,
sfolgorata dall'ira di Giove che loro avesse tolta la metà
dell'ingegno, e segnandoli d'un marchio di proscrizione li avesse
predestinati a quello stato di abbrutimento.
Da oltraggi cotanto disumani originavasi nei miseri quel cupo odio,
quell'ira sì virulenta, che alimentata nel fondo dell'anima i
lunghi anni, scoppiava poi terribilmente di volta in volta colle
carneficine, cogli strozzamenti, colle universali ribellioni, onde si
sforzavano vendicarsi dei loro tiranni. Il che mentre da una parte
serviva a questi di punizione, tornava dall'altra in maggiore aggravio
di quelli; in quanto accrescendo i timori e i sospetti faceva sì
che si adoperasse ogni arte per tenerli schiacciati ed oppressi
sicchè non venisse loro neppure in pensiero di rivelarsi. Laonde
mal si appongon coloro i quali pensano che il dispotismo in antico
regnasse solo in Oriente. Esso fiorì non meno in Occidente;
dacchè tutta la
libertà pagana a niente altro si riducea che alla tirannia di
molti cittadini sopra una moltitudine senza numero di schiavi; e
quando la cosa è la stessa, importa poco che il despota non sia
un individuo, ma un'intera cittadinanza; il divario sta solo in
questo, che qui la tirannide s'innalzava sopra una base più
ampia e la verga venìa impugnata da più mani, e per[ci]ò
l'oppressione riusciva più pesante e i colpi più acerbi.
Ma almeno gl'ingenui, i liberi, i cittadini, avocando a sè soli
la somma della felicità sociale, godevano come individui dei
diritti umani, e serbavano intatta in sè medesimi la dignità
e l'assoluto valore dell'uomo? Si crederebbe? No, neppur questi
venivano risparmiati dall'ingordigia dell'idolo
patria che tutto in sè solamente assorbiva. Il feroce
patriottismo stabilendo lo Stato come ultimo scopo dell'uomo, la sua
durata, la sua felicità come l'unico bene a cui dovesse
aspirarsi, la sua gloria come l'unica norma di ogni azione, spogliava
ogni individuo di qualunque diritto, di qualunque rispetto dovutogli
come a persona, dove con quello venisse a paragone. L'idolatria della
patria formava un principio universale; essa dovea ricevere una
universale applicazione. Per che eziandio il libero, eziandio il
cittadino, costretto di tutto riferire alla patria, di non vivere che
per la patria, si considerò come cosa, strumento, schiavo in
somma della medesima, innanzi alla quale annichilavasi ogni diritto
domestico, ogni merito individuale, ogni esigenza di un essere
personale. Si meravigliano alcuni come in Atene quasi niuno dei grandi
uomini, onde fu sì ferace [= fertile
N.d.R.] quella
repubblica, finisse nella terra natale o in pace i suoi giorni.
Milziade, l'eroe di Maratona, morì nelle carceri; Temistocle
sbandeggiato dovè cercare rifugio presso il figlio di quel Serse,
dalle cui formidabili armate egli avea redente la Grecia; nulla
giovò ad Aristide a liberarlo dall'ostracismo il soprannome che
si avea acquistato di giusto;
nè la decrepita età e la virtù ond'era ammirato
salvò Focione dalla condanna di morte; nè le trecento statue
erette ad onore di Demetrio Falereo valsero a perorare in suo favore,
sicchè non fosse costretto a campar la vita esulando. Ma questo
che sembra a prima vista cieco furore ed inesplicabile sconoscenza,
trova facile e naturale spiegazione nel niun conto in che, secondo il
concetto pagano, tenevasi l'individuo per rispetto allo Stato; talmente che bastava la più
leggiera apprensione di pericolo in ordine alla cosa pubblica per
obbliare qualunque merito, e legittimare il pubblico attentato alle
sostanze, alla libertà, alla vita di qualunque più
ragguardevole personaggio.
Quinci pure si spiega la facilità delle proscrizioni, delle
stragi, fatte a sangue freddo, con indifferenza brutale, tante volte
in Roma dai tempi dei Gracchi infino alla caduta della repubblica. Ti
senti per orrore accartocciare gli orecchi e sollevartisi dalla fronte
i capelli quando leggi di Silla l'atto barbaro, ond'egli ordinò
che fossero scannati a poca distanza dalla curia tutti ad un'ora
ottomila cittadini, che deposte le armi se gli erano arresi. Avendo
nel medesimo tempo convocato il Senato per deliberare intorno ai
pubblici affari, i Senatori esterrefatti dagli urli feroci dei
carnefici e dalle lamentevoli strida delle vittime, si volsero a lui
chiedendo che cosa fosse; ed e[gl]i con una
serenità spaventevole rispondeva: si calmassero, non esser altro
che pochi tristi i quali subivan la pena di loro colpe. Non ti pare il
tipo di Robespierre ascoltante nella Convenzione gli eccessi di
Carrier sugli annegati di Nantes? Questi e simili atti d'indifferenza
crudele nello scempio de' cittadini non potrebbe concepirsi, se non si
ponesse mente che il cittadino medesimo rimpetto alla patria era
nulla, affatto nulla nell'idea pagana, e se era alcuna cosa, era un
semplice mezzo del sociale ben essere. Laonde nei tempi tumultuosi
chiunque impossessatosi del supremo potere identificava la cosa
pubblica con sè medesimo e diceva: lo
Stato sono io, non trovava difficoltà a sacrificare
qualunque numero di cittadini credesse necessario per assodare la sua
nuova possanza.
Addentrato questo concetto pagano dell'annullamento dell'individuo
umano in faccia alla patria, più non ci stupisce di quella
barbara legge presso gli Spartani che vietava l'allevamento dei
bambini nati storpi o deformi, ingiungendo ai magistrati preposti allo
nascite che li gettassero a perire in una fossa. Non
potendo lo stato promettersi da quegli esseri sciagurati alcun bene,
secondo che ne pensavano, non restava loro altro diritto ad
esistere, non avendo alcun pregio assoluto, ma sol relativo alla
felicità sociale. Ed i Romani, che forse andarono
più innanzi di tutti nell'amor della patria, non trovavano in
certo modo altra ragione di esistere salvo quella della dignità
cittadina. Laonde i più grandi e magnanimi tra loro credevano
quasi debito di onestuomo darsi la morte di propria mano, quando
scorgevano caduta senza speranza la superba repubblica; e così
agevolmente s'intende lo spaventoso numero di suicidi che segnalarono
l'epoca del secondo triumvirato. Ecco a che finalmente si riduce il
più bel vanto della civiltà pagana, alla perversione
cioè fondamentale del diritto, alla più stomacante
violazione dell'ordine della natura, all'annientamento del valore
assoluto dell'uomo.
Non è mio divisamento menomar per nulla il pregio del vero
eroismo patriottico, o render l'animo insensibile a quell'ammirazione,
che naturalmente s'ingenera alla vista delle feroci prove di coraggio
che diedero sovente i grandi dell'antichità. Esse furon sublimi,
non può negarsi, ed ogni animo gentile resta commosso ed assorto
rimembrando Leonida co' suoi trecento Spartani al passo delle
Termopile, e quella memoranda iscrizione vergata ad eternarne il
valore: Passaggiero va a Sparta, e
riferisci che qui tutti perimmo per obbedire alle leggi della patria.
Dico solo che il sentimento del sublime producendosi dall'intuizione
d'una grandezza che superi da qualche lato la facoltà
comprensiva, esso solo non basta a darci l'idea dell'eroismo virtuoso.
L'esaltamento patriottico
può come ogni altra passione, uscir fuori della norma
dell'ordine; e n'usciva presso i pagani essendo viziato nella sua
radice, come quello che pullulava non da ordinato amore ma da
idolatria della patria. La
sola religione rivelata ha saputo produrre il vero eroismo
patriottico, mostrando la patria non come fine ma come termine di
un dovere, e subordinando l'amor verso lei all'amor verso Dio.
Il fare diversamente è un pervertire le idee, è uno
spogliare il patriottismo della ragion di virtù, lasciandogli
solo la qualità di passione esaltata, è un farne molla ad
ogni ingiustizia, e alla più atroce tra tutte del vedovare
l'umano individuo d'ogni pregio e dignità personale.
Certamente gli esempî di eroismo nel sacrificare la vita per non
mancare al dovere abbondano oltre ogni calcolo nel Cristianesimo sopra
tutte le istorie pagane; e sarebbe ridicolo il solo voler confrontare
le cifre delle miriadi di martiri d'ogni età, d'ogni sesso,
d'ogni condizione, che giulivi soffrirono i più spietati tormenti
per non profferire un solo accento contro il dettame della coscienza,
con quelle che esprimono il numero degli eroi del gentilesimo.
Contuttociò non può negarsi che questo conta più di noi
vite sacrificate unicamente alla patria, comunque non vanti alcun
martire della religione e di Dio, non quel medesimo Socrate, il quale
prima di morire volle immolare un gallo ad Esculapio.
Qual è la ragione di tanta differenza di eroismo? La ragione
vien suggerita dalla diversità che corre tra l'idea cristiana e
l'idea gentilesca. La religione
di Cristo raddrizzò i distorti concetti; restituì
all'umano individuo la sua dignità naturale, insegnò che
tutto era per l'uomo, e l'uomo per Dio. Il cristiano pertanto
prodigo di tutto sè al sommo Signore e fonte unica di sua
beatitudine sempiterna, non dubitò d'affrontare ogni danno e la
morte stessa per obbedirgli in qualsivoglia precetto che da lui
derivasse. E per[ci]ò in ogni cimento a cui
venisse chiamato per rispetto a qualunque oggetto creato,
misurò il sacrifizio coll'eterna norma delle divine leggi, e
coll'ordine dovuto a Dio. Il pagano al contrario avendo
perduto il verace concetto della divina natura, perdè
altresì quello dell'uomo che in sè scolpita ne recava
l'immagine, nè più risplendette a' suoi occhi il lucido faro
che tra i marosi della vita dovea scorgerlo al porto desiderato. Pur
sospinto da impeto di natura a cercare fuori di sè qualche
oggetto più vasto che lo appagasse, si scontrò in un
individuo più grande, nella massa cioè degl'individui, nel
gran corpo della società a cui come membro apparteneva, e
rispetto alla quale, stante il materialismo mentale in cui era caduto,
si considerò non altrimenti che un atomo. Quivi adunque riconobbe
il suo Dio, attesa la potenza, rimpetto alla quale l'individuo isolato
e debole si dileguava, e quivi, riconobbe il suo ultimo fine, attesa
la copia di beni materiali che ne coglieva. Quindi misurando sè e
lo Stato colla comun legge delle grandezze fisiche, non dubitò
che la gran massa sociale, che avea dinanzi allo sguardo, godesse del
diritto di costituirsi in centro comune delle peculiari tendenze,
esplicando una forza attrattiva e dominatrice delle molecole che a
sè congiungeva. Dottrina cieca, inumana, ed empia, che disconosce
i veraci rapporti di natura, froda l'uomo della sua nobiltà come
persona del mondo, e rapisce a Dio benefico le sue fatture per farne
olocausto a un idolo divoratore.
III.
In un altro articolo io risponderò agli arzigogoli di coloro che
all'evidenza costante, universale, irrecusabile di tanti secoli,
oppongono i vani loro discorsi fondati sulla metafisica
possibilità di ciò che varrebbe a partorir la ragione,
astrattamente considerata e secondo i delirî di non so qual
progresso ch'essi vanno fantasticando. Se non vogliamo correr dietro
alle chimere e stringer l'aria nel pugno, convien che stiamo a quello
che l'esperienza ne insegna, e a ciò che mirando al passato
ragionevolmente può giudicarsi dell'avvenire.
Se questo è vero, le lusinghe de' novelli rigeneratori son vane
e bugiarde; noi seguitando le
loro utopie non che progredire nell'incivilimento, saremmo costretti
ad arretrarci, a torcere violentemente indietro il passo, a riedere
alla coltura pagana. Il corso della civiltà europea sotto
l'influenza del cristianesimo verrebbe interrotto, il lavoro e le
fatiche di tanti secoli sarebbero dissipate, noi traboccheremmo di
corto nella più orrenda barbarie, che sotto un'esterna vernice
di pulitezza, nasconderebbe la più schifosa corruzione e
l'avvilimento il più degradante dell'uomo.
E per acquisto sì lieto e benefico, noi dovremmo incontrar di
buon animo i rovesci, le sventure, i delitti che seco porta, almen
sugl'inizî, un politico rivolgimento? Imperocchè
non giova illudersi prestando fede a quell'inettissima schiera
d'uomini, che si vantan del nome di moderati; i quali amano le
rivoluzioni, ma ne abborriscon gli eccessi, e aprendone il corso
credono poterne arginare a lor senno l'impetuosa piena, sicchè
tutto non allaghi ed abbatta. Quanto valgano le costoro non so se
illusioni o menzogne lo scorgemmo a pruova, or son due anni, quando
li vedemmo abilissimi ed efficaci a dar la spinta al movimento e
mettere in mano agli empî le armi, ma inerti, impotenti, nulli
ad impedirne le esorbitanze o far che almeno si procedesse con meno
audacia e sfrontatezza.
Nè posso astenermi
dall'accusarli almen di mal consigliata prudenza, per[ci]ò
che scioccamente l'uomo si lusinga di potere schivare gli effetti,
quando ne ha posta la cagione necessitata a produrli. O crederemo
essere in nostra mano dare alle cose quel corso che più ci
aggrada, contro l'irresistibile forza della natura? Gettatici per
una finestra pretenderemmo arrestarci a mezz'aria, ovvero compierne
la metà più precipitosa della caduta a maniera di
comodissima discesa per venircene dolce dolce ad assiderci sul
pavimento?
La rivoluzione è uno scompiglio dell'ordine preesistente; è
un appello alla forza bruta; è un rompimento dell'armonia, qual
ch'ella sia, onde i diversi elementi sociali stavano più o meno
insieme rattemperati. Sciolti di sotto al freno, col quale
l'autorità pubblica correggevali, e abbandonati una volta alla
privata loro tendenza è impossibile pretenderne che non facciano
il lor corso, e non seguan l'impulso individuale e divergente di che
sono unicamente naturati. Che per[ci]ò di
necessità ne conseguita disaccordo, lotta, urti scambievoli,
prevalenza determinata non dalla ragione o dal diritto, ma
dall'astuzia, dal caso, dalla maggiore o minor forza con che si
scontrarono. Rimossa dalle menti l'idea della soggezion doverosa ai
poteri di già esistenti come si vuole che essa quasi per incanto
ritorni in sull'istante ad informarle per rispetto ai nuovi poteri che
vengono a stabilirsi, e che una negazione tanto favorevole alle
passioni ed alla licenza tosto si converta in affermazione che le
contrasti? Converrà che essa prima a sazietà si disfoghi,
nè ceda il campo se non quando il lungo correre le abbia fiaccato
la prima lena.
Laonde un popolo rivoltato ti dà sembianza d'un liquido
bollente, in cui il concepito calore abbia messe in moto tutte le
parti, e spinte le infime ad investir le più alte per farsi
strada e toccare la superficie. Tu vedi allora la società tutta
rimescolarsi dall'imo fondo e subire un tremito convulsivo in ogni sua
fibra. Il concepito movimento con forza, starei per dire fatale, ne
spinge all'insù tutte le parti, e par che voglia che
successivamente tocchino la superficie per dileguarsi nell'aria o
ricadere nel fondo. Tutti
pugnan da prima contro i sostenitori dell'antico regime; vinti
costoro si continua la lotta contro quei che sostituironsi nella
vece dei primi; e questi ancora sloggiati, ecco sorgere due opposti
partiti, dei quali il più violento assale il più temperato
e ne trionfa, per quindi esser combattuto e disfatto da un terzo, e
così via discorrendo finchè stanchi dall'assiduo lottare e
affievoliti per le successive perdite cadono in mano di chi sappia a
tempo gettare loro sul collo il capestro.
La storia di tutti i tempi ci riproduce lo stesso spettacolo. Ma
un'immagine assai viva ce ne porse la terribile rivoluzione francese
al cadere dello scorso secolo. In essa procedendo da Mirabeau a
Robespierre si videro successivamente i costituzionali pugnar contro i
regî, i repubblicani prevaler poscia contro i costituzionali, nel
seno stesso della repubblica sorgere i giacobini a spegnere la
moderata Gironda, l'esaltata Montagna assalire alla sua volta la parte
meno eccessiva, e tutti colla stesso accanimento, colla medesima
intolleranza, sicchè nell'atto che le ceneri del fiero Marat
recavansi nel Panteon, quelle del temperato Mirabeau ne venivano
espulse.
E se la provvida mano di Dio non avesse arrestato tra noi il ruinoso
summovimento, quasi in sul nascere, crediamo che non avremmo noi pure
subite le stesse fasi, le stesse sciagure? O ci è chi pensi che
la feccia de' nostri demagoghi non si chiuda nel seno anch'essa i suoi
Danton, i suoi Marat, i suoi Robespierre, che quali sozzi serpenti si
ascondon per ora nel fango, e di sotto al masso che li ricopre stan
covando il lor veleno per vomitarlo nelle vene della società,
come prima le loro teste sieno scoverchiate, e fatte libere ad
addentarla? Un saggio in piccolo potemmo coglierne fin dai primi
tempi, quando si videro di buon ora scavalcati e messi da banda i
primi autori della rivoluzione, minacciati di peggio se non cedevano
con pronta e pacifica ritirata. E già luttuose scene si
apprestavano per l'umor poco cedevole di quelli che erano sottentrati,
tra i quali e i nuovi aspiranti al potere già già
s'ingaggiava la lotta. Chi fu che non credè allor di vedere in
forma di lurido spettro la Francia ai tempi della convenzione, che
lacera di mille ferite e balenando di luce sanguigna, proferisce
questa spaventevol sentenza: tra
pochi giorni mi seguirai? Sien grazie al benefico autore del
tutto che ci campò di tanto periglio. Ma non si giunga al colmo
della stolidezza, o della ingratitudine, col non comprenderne il
benefizio o non trarne salutevol consiglio.
NOTE:
[1] Epist. 91.
[2] Sono degni di considerazione
i lamenti di molti scrittori intorno al guasto universale della
pubblica morale, tra i quali Cicerone così scriveva: «Appena
aperti gli occhi alla luce, incontanente ci troviamo ravvolti in ogni
genere di pravità, talchè sembriamo succhiar l'errore quasi
col latte della nutrice. Quando poi siam restituiti ai parenti o
affidati ai maestri, talmente c'imbeviamo di falsità
svariatissime, che la verità ceda affatto alla vanità, e la
natura stessa dietreggi in faccia alle opinioni che vanno in noi
radicandosi. Che se poi si aggiunga come massimo precettore il popolo
e l'intera moltitudine quasi da ogni parte consenziente nei vizî,
allora l'infezione delle pravi opinioni arriva al colmo, e la natura
medesima da noi vien meno.» (Tusc. I. 3.)
Nessun commento:
Posta un commento
La moderazione dei commenti è attiva.