mercoledì 7 settembre 2016

VALORE DEL RAZIONALISMO IN ORDINE ALLA CIVILTÀ

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

La Civiltà Cattolica anno I, vol. I, Napoli 1850 pag. 159-182.
Chi considera i danni, le sventure, i disastri che seco recano le violente rivoluzioni politiche, non sa finir di comprendere come possano esserci di quelli che con tranquillo animo le vagheggino, e volentieri vedrebbono la loro patria in quel turbine furioso ravvolta. Che una simile indifferenza si scorga in torbidi agitatori, nelle cui viscere un freddo egoismo abbia spento ogni senso di compassione o di patria carità; che si trovi in illusi sapienti cui uno stolido fatalismo faccia ravvisare in quelle scosse e nei guasti che l'accompagnano il corso indeclinabile d'una cieca necessità; pur pure, la cosa non ci stupisce gran fatto. Ma che uomini i quali ammettono la dipendenza degli eventi dal libero concorso dell'arbitrio umano, che ritengono tuttavia sentimenti di umanità e di amore, sieno nondimeno partecipi della medesima indifferenza e direi quasi stupidezza di cuore, questo è ciò che ingenera meraviglia.
Se ben discerno, la spiegazione di tal fenomeno si ritrova nella credenza a che venner condotti questi uomini, i trambusti e le calamità delle rivolture politiche non essere altro che transizioni ad uno stato migliore, doversi accettare, non altrimenti che i dolori del parto, in grazia del bene che loro tien dietro; rassomigliarsi alle furie dell'uragano che dopo avere sconvolta l'aria, spezzati alberi, flagellate marine, lascia poi più sereno l'orizzonte, più limpide le onde, la vegetazione più rigogliosa. Con siffatta persuasion nella mente essi di buon animo si acconciano alla tempesta, ne tollerano pazientemente i rovesci, se non anzi l'aiutano della lor opera, sulla speranza che aprano il varco a un nuovo grado di civiltà e menino a uno stato più alto di umano progresso.
Quand'anche questa speranza non fosse vana, tuttavia si potrebbe muover quistione sul suo relativo valeggio [= valore N.d.R.], istituendo un paragone tra la grandezza del bene intorno a cui versa, e la grandezza e copia de' mali che ad esso debbono spianare il cammino. Dippiù potrebbe a ragion dubitarsi se non torni più utile all'umanità aspettare il lento sì ma tranquillo svolgersi della civiltà per sè stessa, in forza della sua naturale tendenza, che affrettarne violentemente i progressi, con più sollecito acquisto, ma per vie seminate di lagrime e di sciagure. Sarebbon queste quistioni giovevolissime, stante la supposizione da noi fatta, e degne d'essere con diligenza ventilate.
Ma di presente esse non hanno alcun pro, mercè che la supposizione stessa vacilla, e seco trae in rovina la fabbrica che sopra ci si vorrebbe innalzare. Imperocchè qual'è questo bene, onde gli odierni rigeneratori ci lusingano con tanta pompa, e che dovrebbe ottenersi mediante un cumulo di sventure? Non altro che la civiltà prodotta dagli sforzi della pura ragione. Non ho io mestieri di travagliarmi a mostrar ciò con nuovi argomenti, avendo più che bastevolmente dimostrato nel precedente fascicolo come gli uomini di cui parliamo sieno discepoli e promotori del pretto razionalismo. Ora la nuda ragione è affatto impotente a partorire la vera civiltà, e sol può produrne una larva che abbarbagli con fallace barlume, ma che in fondo non altro racchiuda che fitte tenebre e corruzion desolante. Come vedete io vengo al cardine dell'argomento e tronco d'un colpo l'albero dalla radice. Se è vero, come dimostrerò ad evidenza, che la civiltà non può venire nei popoli per opera del razionalismo, avranno più costoro l'audacia di persuaderci a sobbarcarci volenterosi alle inevitabili sciagure della rivolta per giungere al possesso della loro utopia? Potremmo noi prudentemente rassegnarci a subire un lavacro di sangue per acquistarci la beata rigenerazione, di che vogliono regalarci?

I.

Il nome di civiltà è una di quelle voci quanto più comunemente adoperate, tanto meno distintamente intese. Avviene di questa parola quel che incontra a molti termini generati, i quali esprimono un concetto universale bensì, non però tanto semplice che non includa diversi elementi da renderlo molto complicato e bisognoso di analisi. Accade allora che gli animi poco usi a riflettere e a notomizzare le idee, se ne formino una nozione molto confusa, ponendo mente al solo carattere indeterminato ed universale, che è facile a concepirsi a prima giunta, senza badare alle note circoscrittive che lo determinano. Quindi credendo averne acquistato una compiuta conoscenza, la vanno liberamente applicando ai peculiari subbietti che tolgono a disaminare, e ingannati dalla lor convenienza con ciò che nell'idea era di vago e di comune, cadono leggermente in fallaci giudizî.
L'indeterminato e generico che è contenuto dall'idea di civiltà si è l'espressione di un certo progresso che siasi fatto dall'uomo, di una esplicazione che abbia avuto delle naturali sue forze, di un qualche perfezionamento a cui egli sia pervenuto. Ma a pienamente determinarla e non restar nell'incerto, ei non basta concepire un qualunque sviluppo delle naturali attitudini, un qualunque passo dato nel cammino dell'umana perfezione. E chi direbbe in rigore di termini civile quel popolo, presso cui fossero in fiore le arti, svolta l'industria, attivo il commercio, ma un duro giogo pesasse sul collo degl'individui, e una crassa ignoranza ottenebrasse di denso velo i veri più alti e più essenziali alla vita dell'intelletto? Chi direbbe, senza timore di venire smentito, civile e colta una nazione, dove fossero dolci i costumi, agiata la vita, splendido il lusso, ma una turpe dissolutezza bruttasse la morale, e dove la soavità di maniere s'ingenerasse non dall'amore all'onesto, ma dalla mollezza e dallo snervamento dell'animo? Non ogni lindura adunque di culto, non ogni splendore di vita, non ogni copia di beni si chiarisce bastevole per costituire nei popoli la civiltà.
Attenendoci alla semplice definizion nominale che nasce dall'etimologia del vocabolo, pare che l'uman genere non altro abbia voluto intendere per civiltà, se non la perfezione che acquista l'uomo in forza dell'essere di cive, di cittadino. Ora senza travagliarci con troppo sottili discussioni, e senza impegnarci in una definizione scientifica, che potrebbe abbagliare coll'apparenza della sua precisione, io credo che fermandoci sull'enunziato concetto, noi potrem di leggieri rilevare i caratteri che alla civiltà sono indispensabili, e che bastano a rischiararne e distinguere la verace idea.
Se la civiltà importa una perfezione ed un progresso proprio dell'uomo, essa non può prescindere dall'ordine e dalla direzione voluta dalla natura di questo, senza falsare il proprio concetto e senza perdere il dritto d'appropriarsi quel nome. Ora l'uomo non è solamente un essere fisico, ma un essere morale, più morale anzi che fisico, in tanto fisico in quanto morale; essendo certo che in lui il corpo è ordinato allo spirito, ed i sensi alla ragione. Adunque quale che sia l'esplicamento che facciasi della sua attività coi vantaggi che ne rampollano, esso non sarà proprio dell'uomo, non sarà per conseguenza umano, se oltre al ben essere del corpo non apporti eziandio il ben essere dello spirito, oltre il perfezionare i sensi non perfezioni altresì la ragione, oltre alla felicità materiale non arrechi ancor la morale. Anzi l'accordo tra questi due elementi, materiale e morale vuol essere in perfetta consonanza colla natura del subietto a cui si riferisce, e per[ci]ò convien che il morale primeggi o sovrastìa all'elemento materiale, che tutto, quanto esso è, vuol essere a quello diretto ed ordinato.
Nel che a non togliere abbaglio, avvertite che io non dico monopolio o tirannia, ma sol predominio dell'elemento morale. Con ciò voglio dare ad intendere che sebbene la parte primaria e più principale della civiltà sia la purezza e santità de' costumi, tuttavia non si esclude, anzi è richiesto, come integrale secondario e subordinato il ben essere eziandio materiale e lo sviluppo armonico di tutta l'attività umana. Che però dove si desse un popolo, il cui intelletto fosse sufficientemente illuminato, almeno in ordine alle verità più importanti per l'uomo, e la volontà informata d'ogni più bella e squisita virtù, ma che fosse povero d'arti, d'industria, di commercio, e difettasse d'agî opportuni alla vita fisica; esso godrebbe, non può negarsi, d'una perfezione invidiata e sublime, ma a rigor di termini non potrebbe dirsi civile nel senso completo della parola. Miralo in quella sterminata moltitudine di solitarî che nei primi secoli della Chiesa popolarono le solitudini dell'Arabia e dell'Egitto. Essi formarono una società sovraumana, nella quale la perfezion morale dell'uomo e l'esercizio delle più eccelse virtù fu portato ad un altissimo segno, al quale sarebbe sembrato pazzia il pensare che l'uomo potesse aggiunger giammai. Essi non pur dominarono i sensi ma li annientarono in certa guisa, e fecero sparire la carne in faccia allo spirito; essi instituirono sulla terra una vita emulatrice di quella degli angeli in cielo. Potresti nondimeno dire per questo che la vita de' padri del deserto presentasse l'idea della coltura dei popoli che vogliam significare quando da noi si proferisce il vocabolo civiltà? Fu quella una perfezion d'altro genere, un progresso relativo al solo spirito dell'uomo, una civiltà, se così piace chiamarla, eccezionale e d'un ordine superiore all'umano, di cui il Cristianesimo diede prova per mostrare praticamente la potenza illimitata dello spirito sotto gl'influssi della divina grazia, e persuadere coll'irrepugnabile evidenza dei fatti la possibilità di contener le passioni dentro i confini dell'onesto, mentre da tanti si giugneva perfino a distruggerle negando loro ogni pascolo comechè legittimo e temperato. Ma questo, come dissi, è eroismo straordinario, è l'eccesso della forza spirituale che assorbisce le inferiori tendenze, è la potenza della grazia che captiva interamente la natura, è eccezione del corso consueto ed umano, che perciò non è cosa propria di tutti ma sol di alcuni. La perfezione comune, la perfezione conveniente all'uomo preso in massa e secondo il naturale suo stato dee includere lo sviluppo ordinato di tutte le sue attitudini, i beni proporzionevoli a tutto il suo essere, e per[ci]ò non involge dominazione assoluta ma sol prevalenza dello spirito riguardo al corpo, della ragione per rispetto ai sensi.
Nè questa prevalenza dell'elemento morale de[v]e procedere da solo privato sforzo dell'individuo, ma de[v]e dipendere dall'influenza stessa sociale; altrimenti sarà perfezione dell'uomo, ma non quella che merita nome di civiltà. La civiltà essendo derivata da cive, ed esprimendo, come sopra notammo, la perfezione prodotta nell'uomo, mercè l'essere di cittadino, involge sempre un rapporto alla comunanza civile, in quanto sempre riguarda l'uomo sotto la condizione ed il rispetto di sociale. Non basta che questi preso isolatamente dagli altri si consideri perfezionato, perchè possa dirsi incivilito. Un perfezionamento relativo al solo individuo, sia uno o molti, senza dipendenza da cause sociali, senza relazione ad altrui, che non si manifesti, non si propaghi, non influisca sul miglioramento d'altri individui congiunti insieme a convivere, costituisce un semplice progresso privato non pubblico, appartiene alla coltura dell'umanità considerata in sè stessa non in comune consorzio, rende la persona più umana ma non più civile, produce in somma nell'uomo un grado più alto di svolgimento, ma non costituisce la civiltà. Acciocchè questa si ottenga, fa d'uopo che la perfezione venga negl'individui in quanto essi fanno parte della comunanza sociale, sia prodotta da cause sociali, si connetta coi sociali ordinamenti, venga informata di sociali rapporti.
Nondimeno qui vuole usarsi cautela per non cadere in un errore gravissimo. Dal richiedere la civiltà d'esser vestita di esteriori attinenze, considerando l'individuo sotto il rapporto sociale, non si de[v]e inferire che dunque essa non si propone per supremo suo scopo l'individuo medesimo, ma miri ultimamente al corpo sociale in quanto formi in certa guisa un tutto astratto, il cui ben essere sia separato dalla felicità dei singoli che lo compongono. La stessa parola uomo vale a camparci da questo scoglio. L'individuo umano entrando a far parte della società, sebbene rivesta novelli doveri, e modifichi e limiti i suoi d[i]ritti e la sua libertà in maniera da render possibile la coesistenza dei d[i]ritti e della libertà degli altri coi quali si associa: tuttavia non cessa di essere il termine a cui in giusta proporzione il comun bene, dall'associazione inteso, si riferisca. E strano sarebbe il considerarlo come un semplice mezzo unicamente inteso per la prosperità dello Stato, e quasi un veicolo per cui il ben essere quasi affin di fermarsi nel gran tutto sociale. Ciò nasce da una doppia ragione: dalla dignità personale propria dell'individuo umano, e dalla eccedenza che essa ha rispetto a qualunque consorzio meramente civile e terrestre.
Comechè sia vero che in qualunque unione la parte debba cedere al tutto, nondimeno questo universale principio nella sua concreta applicazione va inteso secondo la natura di essa parte e di esso tutto, sicchè non contrasti ma consuoni all'ordine della ragione. L'individuo umano fa parte della società, ma non per questo dismette la propria essenza, che è di esser persona non cosa, fine non mezzo nell'universo. Il perchè egli non può per qualunque fatto, che sopravvenga alla propria natura, convertirsi in mero strumento di bene altrui, qual che sia l'eccellenza di questo nuovo essere che si formi. Dippiù l'individuo umano ha un immenso destino da compiere, un destino che stendesi al di là dell'angusto giro del tempo. Egli porta l'immagin di Dio scolpita nel suo spirito; egli ha un elemento di esistenza immortale; egli è superiore a quanto ci ha di caduco e di terreno. Mercè la parte razionale ed eterna dell'esser suo egli esce fuori dei confini della vita presente, travalica tutto l'ordine materiale, mette il capo in una sfera superiore ed elevata, dove ha rapporti immediati e morali con la stessa suprema cagione dell'universo, e formando colle altre intelligenze un consorzio che sfugge a qualunque potere derivato dalla terra, vive sotto il correggimento e l'autorità di Dio stesso. Or la società civile è fattura dell'uomo, ristretta alla sola temporanea esistenza degl'individui che la compongono, nasce, grandeggia, e finisce col tempo, non ha potere che sopra i soli esterni rapporti di uomo ad uomo. Laonde sebbene, considerata in quanto alla parte per così dire esteriore, a fronte dell'individuo umano spieghi grandezza gigantesca e colossali dimensioni; pure, considerata quanto alla parte spirituale ed interna, diventa nana, s'impiccolisce, si annienta, atteso la superiorità dell'animo indipendente che alberga in ciascun uomo. Onde conseguita che essa non può giammai dominare e reggere tutto l'individuo, ma solo gli atti esterni riferibili alla vita terrestre e transitoria, senza rompere per altro o guastare i rapporti che questa stessa include in ordine alla vita avvenire, indefettibile, e subordinata alla sola divina potenza. Di che si pare eziandio quanto sia ragionevole e conforme all'ordine voluto dalla natura che il potere civile nell'ordinare i rapporti degl'individui nella società temporale e terrena si supponga illuminato e retto da una norma superiore che guardi al fine ultimo di tutto l'uomo e si riferisca alla vita avvenire; norma che a lui venga dettata da un potere più alto, da un potere di diverso ordine, da un potere di origine divina, la cui efficacia non sia ristretta tra i limiti della sola vita presente. Ma di ciò in altro luogo.
Raccogliendo adunque il molto in breve convien conchiudere che la vera civiltà propria dell'uomo de[v]e contenere sempre il predominio dell'elemento morale in maniera pubblica, cioè in forza di ordinamenti sociali, e de[v]e cercare come scopo il bene degl'individui rispettandone la dignità personale. Imperocchè, l'ordine di natura ci apprende che in ultima analisi non è l'individuo per la società, ma la società per l'individuo; il quale si unisce ad altri in civil comunanza per meglio conseguire coll'altrui presidio quella perfezione, cui da sè solo non potrebbe raggiugnere.
Ora una civiltà, qual noi l'abbiamo descritta, è impossibile che nasca dal razionalismo e dalle sole forze dell'uomo abbandonato a sè stesso, comechè altro ne dicano i baldi nostri progressisti, lodatori ampollosi del valore della ragione. A render cospicua questa mia assertiva io potrei forse con lode di acuto sillogizzatore valermi di sottili argomenti tolti dalla contingenza e defettibilità naturale dell'uomo, dalle piaghe occulte del cuore, dal fascino degli oggetti sensibili, dalla forza volubile dell'immaginativa, dall'impeto che seco recano le passioni e dalle attrattive che esercitano sulla troppo debole volontà. Ma qual pro, se la dimostrazione sembrerebbe allora vagar per le nuvole, noierebbe colle sue sottigliezze, e non uscendo dalla sfera di metafisiche astrazioni aprirebbe il campo a infinite repliche e a infiniti cavilli? Meglio sarà dare al discorso un solido fondamento trasportando la quistione dall'astratto delle idee al concreto dei fatti, che è il campo in cui spazia ciò che non è chimerico ma reale.
La ragione umana fu messa alla prova, ebbe campo di sperimentar le sue forze, nè pel corto spazio di pochi anni, ma pel lunghissimo tratto di ben quaranta secoli, quanti ne corsero dalla colpa del primo padre fino alla venuta del divino Riparatore. Pertanto qual civiltà fruttò ella col suo lungo e faticoso lavoro? Non altra che la pagana. Or la coltura pagana fu affatto orba delle due doti, divisate di sopra come condizioni indispensabili a costituire una civiltà, verace ed umana. Nè altri creda che a procurarne un facile convincimento io intenda farvi guardare ai popoli orientali, dove la civiltà, a guisa di pianta che per difetto di umore isterilisce ed avvizza, sotto il despotismo asiatico non ebbe libero campo di esplicarsi, ma soffocata sul primo suo crescere si avviò in certa guisa dalla culla al sepolcro. No, io son contento che a formar giudizio della civiltà pagana, voi la contempliate nel suo pieno giorno, nel massimo grado di vigoria a cui venne, sotto il limpido aere della libertà europea, nelle famose repubbliche di Grecia e di Roma, sospiro e delizia de' moderni rigeneratori d'Italia. Io oso osservare che quivi ancora mirata, comechè spiegasse ogni suo vigore, e splendesse nel suo apogeo, tuttavia si mostrò fiacca ed effimera, perchè ristretta al solo ordine materiale corruppe affatto e perdè l'elemento morale, e disconobbe interamente la nobiltà dell'individuo umano convertendolo in mero mezzo e strumento di grandezza politica.
E quanto al primo di questi caratteri, un fenomeno salta subito agli occhi dei riguardanti, ed è che sì i Greci come i Romani non sepper mai accordare insieme gli agi della vita fisica colla purezza della vita morale, e far camminar di conserto gl'incrementi dell'una coll'ingrandimento dell'altra. Essi passarono costantemente dalla rusticità alla mollezza, dalla ferocia alla voluttà, dalla barbarie alla corruzione. Temperati abbastanza, almeno, quanto all'assenza di grandi vizî, finchè dimorarono in uno stato di semplicità infantile, non seppero contenersi tra i limiti dell'onesto, come prima uscirono di fanciullezza, e ammorbidendosi nei costumi tramutarono coll'opulenza e con la scienza l'antica penuria ed ignoranza. Rimontando ai tempi di Minosse o di Codro, di Cincinnate o di Fabrizio, quando pochi iugeri di terreno formavano la privata dovizia d'ogni più cospicua famiglia, e il dittatore passava dal reggere la cosa pubblica a coltivare il proprio campo, tu ti scontri in molti esempi di austerezza e probità non comune. Ma appena ti discosti alcun poco da quei tempi di rusticità primitiva, e ti avvolgi all'epoca dei costumi soavi e raffinati, della grandezza di signoria, della copia dei comodi per la vita piacevole, e il volto ti si coprirà di rossore alla vista del rotto e dissoluto vivere a che si venne, delle ingiustizie, delle laidezze, che imbestiando gli spiriti produssero una universale corruttela. Sembra manifestamente che tutto il progresso della civiltà pagana fosse in ordine alla voluttà, che l'elemento morale dopo aver raggiato di fioca luce quando l'allettativo del senso non l'adombrava, si spegnesse poi del tutto, e che quegl'infermi palati non sapessero gustare il piacere senza perdere ad un tempo ogni gusto della virtù.
Che se pur qualche lampo di virtuosa azione, qualche fatto laudevole vien a rompere di tratto in tratto la spiacente monotonia di quella vita molle e dissoluta, essi non sono che fatti isolati, senza nesso scambievole, senza influsso o dipendenza sociale, e ti porgono immagine d'un quadro d'ogni dove caricato di ombre, dal cui fondo si spiccano alcune figure mal delineate e prive d'attinenza col tutto.
Del resto la moralità pubblica era svanita, e fanno orrore le scostumatezze invalse nell'uso e talvolta sancite ancor dalle leggi. Mi renderei increscevole se discorrendo per le singole parti della morale e del diritto, segnalar volessi tutti gli sconci che dall'universale si pensavano e praticavano, sia in ordine alla proprietà e alla vita degl'individui, sia per riguardo all'uso del matrimonio e alla condizion della donna, sia rispetto alla educazion de' figliuoli e alla potestà paterna, sia finalmente per rapporto alla ragion di fare la guerra a profittare della vittoria. Ma stando a quel solo che è più nauseante e grossolano, e che più apertamente si manifesta col lezzo che spira e coll'orrore che ingenera, qual animo onesto può senza indignazion ricordare come presso quelle coltissime nazioni non pure la fornicazione non si reputasse più vizio, ma, turpitudine ancor più nefanda, si tollerasse come mezzo acconcio a fomentare lo scambievole affetto? Nè la verecondia trovava difesa alcuna nel pubblico insegnamento: chè scuola di oscenità erano i teatri fuor d'ogni credere scorrettissimi, incentivo al mal costume gli esercizî ginnastici dei giovanetti e delle donzelle, fomento alla lascivia le cerimonie del culto, e i sacrifizî; nei quali, secondo l'espressione di S. Agostino, non pure, i volatili e i quadrupedi e le vite degli uomini, ma ciò che è più scellerato, lo stesso pudore umano immolavasi [1]. E dovrem noi ricordare le immagini lascive, le feste licenziose, gl'impuri misteri di Adone e di Priapo, le schifose prostituzioni solite farsi nel tempio di Giove Ammonio, le meretrici sacre a Venere in Atene ed in Corinto? Ben può dirsi che i pubblici costumi e le pubbliche massime formavano come un'atmosfera pestilenziale che d'ogni parte infettava la società, e da cui anche malgrado suo conveniva che ciascuno restasse ammorbato.
Ma niente ci chiarisce con maggiore evidenza la corruzione avvenuta della morale presso quei popoli, quanto il mostruoso concetto che della divinità si avevan formato. Se in Oriente i savî eran caduti nel panteismo e la plebe avea divinizzate le singole parti della natura, in Occidente i primi filosofi furono atei ed i popoli sotto la scorta de' loro poeti crearonsi i proprî Numi. Ma, come era naturale a seguirne, li crearono a propria immagine. Per[ci]ò presso essi non ci fu Dio che non avesse e moglie e figliuoli e nipoti e lunga serie di congiunti od affini. Laonde chi imprendeva a tesserne le genealogie o a descriverne le parentele, incontrava non lieve difficoltà a ravviare il bandolo di così intricata matassa. Pur poco male, se non li avessero assoggettati alle stesse passioni degli uomini e macchiati d'abbominevoli vizî. E chi non pospone l'antico Olimpo a qualunque consorzio più disfrenato, il quale certo non potrà noverare altrettante discordie tra i suoi componenti, altrettanto odio, altrettante ire, altrettante risse, altrettanti adulteri, ed incesti, e tradimenti, e vendette? Non credo andrebbe lungi dal vero chi opinasse che fosse inventata quella dimora dei Numi per far che l'uomo prendesse noia del cielo, e più tenacemente aderisse alla terra. Se pur non voglia dirsi che fosse un ripiego per sottrarre quei mostri dal carcere o dal supplizio a cui un sentimento innato di giustizia avrebbeli quaggiù condannati. E non meritava la pena capitale un Giove, che mutilava il genitore e dalla cui impurezza niun talamo o fiore di pudicizia era securo? Anzi pareva che nè anche il sesso fosse schermo bastevole, come può argomentarsi dal ratto del leggiadrissimo Ganimede. [Il p. Liberatore fa qui riferimento alla pederastia; era normale d'altronde che un cattolico avesse ritegno di far anche solo un vago riferimento al peccato impuro contro natura, il quale all'epoca sua non era ancora sancito pubblicamente per legge dallo Stato. N.d.R.] Non era degno almeno del carcere un Apollo che vivo scorticava il rivale, o un Mercurio proteggitore di ladri, ladro ancor esso, un Bacco ingordo, beone e promotore d' ubbriachezza, o una Venere lasciva ed adultera? Non pare che questi ed altri infamissimi, che costituivano gl'Iddii dei popoli più inciviliti, fossero sollevati agli onori divini per isciogliere sul loro esempio ogni freno ai costumi, per estinguere ogni rimorso nell'animo e tergere ogni rossore dal volto, mentre non ci era azion detestabile che non avesse il suo protettore nel cielo, nè turpitudine più schifosa che non dovesse venire onorata per debito di religione? [2] E farem noi le meraviglie se nel colmo della civiltà romana la sfacciataggine giungesse a tale, che l'imperatrice Messalina prostituisse quasi per giuoco le più nobili donzelle nei pubblici lupanari, senza che i parenti ne muovesser richiamo, e l'imperatore Nerone assembrasse il senato per deliberare intorno alle sue [di lei, N.d.R.] nozze col liberto Pitagora?
In tanta colluvie di rei costumi, in sì fosco tenebrìo della mente tornerebbe ridicolo il chiedere in quale stima avessero la virtù. Presso i Romani, che più di tutti inoltrarono nella coltura, mancò fino il nome per significarla; giacchè virtù appo loro propriamente esprimeva la robustezza ed il valore. Certamente Virgilio volendo darcene un modello nel suo Enea, da lui proposto come ideale della pietà, ci presentò tale un eroe, da disgradarne qualunque capo delle più selvagge tribù dell'America. Tranne l'amore al proprio padre e un feroce coraggio nelle battaglie, tu non altro vi scorgi che stolta e crudele superstizione, fonte di mille ingiustizie e di mille vituperose azioni. E qual idea di virtù ti dà un uomo che viene ad impossessarsi con violenza di un paese non suo, che muove guerra e rapisce la sposa a un pacifico principe, che scanna gli uomini sull'altare de' suoi numi, e trucida di propria mano il nemico già inerme e supplichevole?
So che molto si è detto in commendazione delle celebratissime leggi di Licurgo e di Solone, descritteci con tanta venustà di stile da Senofonte. Ma basta la più lieve considerazione per convincersi che salvo sapienti ordinamenti per procurare la robustezza del corpo e tutelare da mutazioni pregiudizievoli la cosa pubblica, niente contenevano che valesse ad appurar la morale [= purificare la morale N.d.R.] e imprimere virtù sincere negli animi de' cittadini. Tutto quell'apparato di sapienza non usciva dagli stretti confini della politica, e purchè producesse un forte amore di patria, attutava ogni altro sentimento del cuore, e spesso poneva eziandio in non cale l'onesto. Testimonio la licenza degli esercizî ginnastici [= con la scusa di praticare la ginnastica si giunse ad ogni pratica licenziosa, omosessualità compresa. N.d.R.], il premio sancito in Lacedemone ai furti fatti con destrezza, ed il comando d'imprestare la propria donna a' più giovani, affin di migliorare la razza, siccome farebbesi in un armento. Del resto esse [le suddette leggi N.d.R.] in Atene non ebber vita più lunga di cinquant'anni; e a Sparta, dove la loro austerità materiale durò più secoli, non valsero che a formare ipocriti nella virtù, finchè da Filopemene vennero abrogate del tutto, siccome non atte oggimai che a produrre ferocia, turbolenza e sfrenatezza.
  Mentre l'ordine morale veniva così depresso, s'innalzava all'incontro l'ordine materiale grande e pomposo, con quanto può immaginarsi di opulenza, di lusso, di splendore, di squisitezza nei mezzi di soddisfar ogni voglia e procurar ogni piacere. Di troppo mi allargherei, se volessi dipingere anche in iscorcio i magnifici palagi,  le amene ville, le cene voluttuose, gli sfoggiati spettacoli, le sopraffine delizie che formano la parte maestosa e splendida della civiltà pagana, e nella quale si veniva consumando una vita molle e stemperata. Ci furon anche a que' tempi, non lo dissimulo, parecchi uomini di severi costumi, di cui la storia ha trasmesse e magnificate le laudi. Ma lasciando stare che i loro panegiristi spesso ne esagerarono il merito, come era costume di quei scrittori, tuttavia stando a quello stesso che ne raccontano si scorge abbastanza che quegli eroi sì decantati non cercarono che una probità esteriore, che valesse a procacciar loro credito di virtuosi, e una certa continenza da eccessiva sregolatezza, che servisse al fine di meglio e più durevolmente fruire della materiale beatitudine. Insomma sembra che essi praticassero il sistema epicureo, che stabilendo per ultimo scopo la voluttà, inculcava nondimeno la virtù come mezzo a procurarla, nè a dir vero si debbe ad Epicuro il merito d'averlo inventato, quanto piuttosto d'averlo ridotto a teoria corredandolo di scientifiche forme.

II.

Per altro in mezzo a tanta prostrazione della morale, a tanto predominio del senso sulla ragione, una virtù folgoreggia presso gli antichi in sommo grado, ed è l'amor della patria, portato ad essi al segno più sublime di eroismo. È questo il tratto più fulgido e più magnifico della civiltà pagana, argomento di sfoggiatissime lodi e che tuttavia abbarbaglia colla scintillante sua luce. Contuttociò se invece di lasciarsi abbacinare dall'effimero chiarore che spande, noi cerchiamo colla riflessione di addentrarne il fondo e la sostanza, ci avvedrem di leggieri che il patriottismo pagano tanto è lungi che sia argomento di civiltà che anzi è argomento di barbarie, costituendo la piaga fondamentale di quei tempi corrompitrice d'ogni coltura. Esso non si tenne nei giusti limiti, ma trasandò, ed uscendo fuori della norma della ragione non fu amore, ma culto, adorazione, idolatria della patria, a cui sagrificò tutti i diritti dell'uomo e l'alienabile dignità della sua razionale natura.
Condizion primitiva, condizione indispensabile, condizione per eccellenza d'ogni civile coltura si è che la società si ordini a vantaggio e felicità degl'individui che la compongono, nè mai perda di vista il valore assoluto dell'uomo. Ora, chi ben consideri il patriottismo pagano, che uomini insensati vorrebbero riprodotto tra noi, disconobbe interamente questo carattere essenziale della civiltà, annientando onninamente la personalità umana e formando della patria un idolo mostruoso, il quale facesse per sè il monopolio d'ogni dritto, e rimpetto a cui ogni altro essere si dileguasse, ogni legittima pretensione svanisse.
Ciò primieramente si manifesta dal dispregio vilissimo in che tenevano gli altri popoli, sovvertendo ogni principio di carità internazionale. Presso i Greci il Greco era ogni cosa, lo straniero era niente; presso i Romani la dignità di cittadino formava l'uomo, chi n'era privo non era degno di alcuna stima, nè meritava considerazione veruna. Ed era strano veramente il vedere essere barbaro ad un tempo il Romano al Greco ed il Greco al Romano. Vero è che per una felice incoerenza l'uomo pagano non fu sempre fedele alla fierezza di questo principio, e molti tratti di umanità verso gli estranei ci ricorda la storia. Ma ciò significa che sovente la bontà della natura superò l'inveterata prevenzione, e che il buon senso in alcuni casi fu più forte della logica. Nel rimanente la legge universalmente ammessa era quella, e l'appartenere o no alla patria formò l'unico criterio del rispetto e dell'amore che dovesse portarsi ad ogni uomo. Quindi si reputò legittima la guerra intrapresa a solo scopo di conquista, perchè ne veniva ingrandimento alla patria. Quindi le devastazioni, gl'incendî, le stragi indistinte di tutti nelle città debellate furon credute mezzi giusti di rappresaglia, perchè l'avversare la patria dei vincitori toglieva ai vinti eziandio imbelli e disarmati ogni dritto di proprietà e di vita. Quindi tutto fu stimato lecito contro i popoli di diversa favella e di diverso linguaggio, tanto solo che così imperasse l'ira o l'interesse della propria patria. Le ceneri della già ricca e potente Troia, le fiamme di Corinto e di Numanzia ti danno un saggio delle infinite vittime immolate all'idolo inesorabile. E tanto infelice quanto rinomata Cartagine! Fu più volte agitata per lei nel senato di Roma la quistione di vita o di morte, e tra quei savî sì celebrati qual era il criterio al cui peso libravasi sì gran sentenza? Il vantaggio o il danno che poteva derivarne alla patria; sostenendo Scipione Emiliano che l'esistenza d'una rivale fosse utile alla repubblica, e Catone per converso che ne compromettesse la gloria. Prevalse per l'autorità dell'uomo l'atroce consiglio, e si vide senz'altro motivo, da quello in fuori della semplice gelosia, provocarsi dai Romani la terza guerra punica, che finì col totale sterminio delle mura e dei cittadini Cartaginesi. Che però non è meraviglia se vediamo nelle antiche guerre opporsi dai combattenti sì accanita resistenza, da lasciarsi, anzi che cedere, trucidar tutti sul campo. Il che dai meno perspicaci viene attribuito a valore, ma in sostanza era disperazione feroce, in quanto si sapea qual reo governo avrebbon d'essi fatto i vincitori dopo la zuffa, e di cui quell'antica formola: guai ai vinti esprimeva con arguto laconismo l'atrocità.
Un'altra prova di questo vero ci vien porta da quella flagrante violazione di naturale giustizia sì universale e sì diuturna presso i pagani, volli dire la schiavitù. Siccome la patria era tutto e in sè assorbiva non pure i poteri politici, ma i diritti umani; così chi per nascimento o sventura non era cittadino, non era uomo. Esso poteva impunemente venire associato in qualità di mero strumento dell'altrui privato ben essere; trattarsi come cosa, spoglia affatto di merito personale, adoperarsi qual mezzo di utilità o di piacere. Nè pochi erano gl'infelici, ai quali nelle più colte società gentilesche toccava una sorte sì lagrimevole. In un novero che se ne fece in Atene si trovò che essi erano due terzi degli abitanti. Gl'iloti a Sparta furono sì numerosi, che quantunque fosse loro interdetto il portar armi, pure con la semplice forza che produceva la moltitudine furono più volte sul punto di rovesciare l'ordine pubblico. Ed a Roma i mancipî crebbero a tale eccesso, che venuto il Senato in pensiero di assegnar loro negli abiti un distintivo, se ne astenne per la ragione che così avrebbero avuto un mezzo di conoscere lo sterminato numero in che erano, ed accorgersi delle proprie forze. Certo se ai cittadini apparteneva solamente il badare agli affari della guerra e della pace, ed era loro vietato l'attendere ai mestieri ed alle arti lucrose, ben si vede come tutti i coltivatori delle campagne, gli artefici, gl'industriosi d'ogni maniera non dovevan esser che schiavi. E questi che formavano co' proprî sudori il più ed il meglio della dovizia territoriale, che concorrevano con una vita piena di stenti al ben essere della società, doveano venir esclusi non solo da ogni ingerenza nella politica, ma dai diritti altresì civili, e, orribile a dirsi! dai diritti eziandio umani!
Agguagliati alla condizione dei bruti, dopo il giornaliero travaglio, si ricoglievan la notte a prendere ambascioso sonno, la più parte nei sotterranei, con appena onde sfamarsi: mentre l'opulento Signore crapolava alla mensa fatta opipara dai loro guadagni, sdraiato mollemente sopra letti di porpora e di broccato. Quanto essi avevano, donna, figliuoli, vita, era di pertinenza del loro padrone, che poteva a volontà venderli, tormentarli, ucciderli, senza che avesse a render ragione del suo capriccio a veruno. E chi può senza fremer di sdegno ricordare lo schiavo dato a mangiare alle murene dal suo padrone per ciò solo che avesse infranto un vaso, i quattrocento servi fatti scannare in un giorno perchè fu trovato assassinato il prefetto Pedanio Secondo? Per iscusare poi tanta barbarie aggiungevano alla crudeltà il disprezzo, fondando il loro diritto sopra questo principio, che gli schiavi fossero una razza vile, distinta moralmente e fisicamente da quella degli uomini liberi, sfolgorata dall'ira di Giove che loro avesse tolta la metà dell'ingegno, e segnandoli d'un marchio di proscrizione li avesse predestinati a quello stato di abbrutimento.
Da oltraggi cotanto disumani originavasi nei miseri quel cupo odio, quell'ira sì virulenta, che alimentata nel fondo dell'anima i lunghi anni, scoppiava poi terribilmente di volta in volta colle carneficine, cogli strozzamenti, colle universali ribellioni, onde si sforzavano vendicarsi dei loro tiranni. Il che mentre da una parte serviva a questi di punizione, tornava dall'altra in maggiore aggravio di quelli; in quanto accrescendo i timori e i sospetti faceva sì che si adoperasse ogni arte per tenerli schiacciati ed oppressi sicchè non venisse loro neppure in pensiero di rivelarsi. Laonde mal si appongon coloro i quali pensano che il dispotismo in antico regnasse solo in Oriente. Esso fiorì non meno in Occidente; dacchè tutta la libertà pagana a niente altro si riducea che alla tirannia di molti cittadini sopra una moltitudine senza numero di schiavi; e quando la cosa è la stessa, importa poco che il despota non sia un individuo, ma un'intera cittadinanza; il divario sta solo in questo, che qui la tirannide s'innalzava sopra una base più ampia e la verga venìa impugnata da più mani, e per[ci]ò l'oppressione riusciva più pesante e i colpi più acerbi.
Ma almeno gl'ingenui, i liberi, i cittadini, avocando a sè soli la somma della felicità sociale, godevano come individui dei diritti umani, e serbavano intatta in sè medesimi la dignità e l'assoluto valore dell'uomo? Si crederebbe? No, neppur questi venivano risparmiati dall'ingordigia dell'idolo patria che tutto in sè solamente assorbiva. Il feroce patriottismo stabilendo lo Stato come ultimo scopo dell'uomo, la sua durata, la sua felicità come l'unico bene a cui dovesse aspirarsi, la sua gloria come l'unica norma di ogni azione, spogliava ogni individuo di qualunque diritto, di qualunque rispetto dovutogli come a persona, dove con quello venisse a paragone. L'idolatria della patria formava un principio universale; essa dovea ricevere una universale applicazione. Per che eziandio il libero, eziandio il cittadino, costretto di tutto riferire alla patria, di non vivere che per la patria, si considerò come cosa, strumento, schiavo in somma della medesima, innanzi alla quale annichilavasi ogni diritto domestico, ogni merito individuale, ogni esigenza di un essere personale. Si meravigliano alcuni come in Atene quasi niuno dei grandi uomini, onde fu sì ferace [= fertile N.d.R.] quella repubblica, finisse nella terra natale o in pace i suoi giorni. Milziade, l'eroe di Maratona, morì nelle carceri; Temistocle sbandeggiato dovè cercare rifugio presso il figlio di quel Serse, dalle cui formidabili armate egli avea redente la Grecia; nulla giovò ad Aristide a liberarlo dall'ostracismo il soprannome che si avea acquistato di giusto; nè la decrepita età e la virtù ond'era ammirato salvò Focione dalla condanna di morte; nè le trecento statue erette ad onore di Demetrio Falereo valsero a perorare in suo favore, sicchè non fosse costretto a campar la vita esulando. Ma questo che sembra a prima vista cieco furore ed inesplicabile sconoscenza, trova facile e naturale spiegazione nel niun conto in che, secondo il concetto pagano, tenevasi l'individuo per rispetto allo Stato; talmente che bastava la più leggiera apprensione di pericolo in ordine alla cosa pubblica per obbliare qualunque merito, e legittimare il pubblico attentato alle sostanze, alla libertà, alla vita di qualunque più ragguardevole personaggio.
Quinci pure si spiega la facilità delle proscrizioni, delle stragi, fatte a sangue freddo, con indifferenza brutale, tante volte in Roma dai tempi dei Gracchi infino alla caduta della repubblica. Ti senti per orrore accartocciare gli orecchi e sollevartisi dalla fronte i capelli quando leggi di Silla l'atto barbaro, ond'egli ordinò che fossero scannati a poca distanza dalla curia tutti ad un'ora ottomila cittadini, che deposte le armi se gli erano arresi. Avendo nel medesimo tempo convocato il Senato per deliberare intorno ai pubblici affari, i Senatori esterrefatti dagli urli feroci dei carnefici e dalle lamentevoli strida delle vittime, si volsero a lui chiedendo che cosa fosse; ed e[gl]i con una serenità spaventevole rispondeva: si calmassero, non esser altro che pochi tristi i quali subivan la pena di loro colpe. Non ti pare il tipo di Robespierre ascoltante nella Convenzione gli eccessi di Carrier sugli annegati di Nantes? Questi e simili atti d'indifferenza crudele nello scempio de' cittadini non potrebbe concepirsi, se non si ponesse mente che il cittadino medesimo rimpetto alla patria era nulla, affatto nulla nell'idea pagana, e se era alcuna cosa, era un semplice mezzo del sociale ben essere. Laonde nei tempi tumultuosi chiunque impossessatosi del supremo potere identificava la cosa pubblica con sè medesimo e diceva: lo Stato sono io, non trovava difficoltà a sacrificare qualunque numero di cittadini credesse necessario per assodare la sua nuova possanza.
Addentrato questo concetto pagano dell'annullamento dell'individuo umano in faccia alla patria, più non ci stupisce di quella barbara legge presso gli Spartani che vietava l'allevamento dei bambini nati storpi o deformi, ingiungendo ai magistrati preposti allo nascite che li gettassero a perire in una fossa. Non potendo lo stato promettersi da quegli esseri sciagurati alcun bene, secondo che ne pensavano, non restava loro altro diritto ad esistere, non avendo alcun pregio assoluto, ma sol relativo alla felicità sociale. Ed i Romani, che forse andarono più innanzi di tutti nell'amor della patria, non trovavano in certo modo altra ragione di esistere salvo quella della dignità cittadina. Laonde i più grandi e magnanimi tra loro credevano quasi debito di onestuomo darsi la morte di propria mano, quando scorgevano caduta senza speranza la superba repubblica; e così agevolmente s'intende lo spaventoso numero di suicidi che segnalarono l'epoca del secondo triumvirato. Ecco a che finalmente si riduce il più bel vanto della civiltà pagana, alla perversione cioè fondamentale del diritto, alla più stomacante violazione dell'ordine della natura, all'annientamento del valore assoluto dell'uomo.
Non è mio divisamento menomar per nulla il pregio del vero eroismo patriottico, o render l'animo insensibile a quell'ammirazione, che naturalmente s'ingenera alla vista delle feroci prove di coraggio che diedero sovente i grandi dell'antichità. Esse furon sublimi, non può negarsi, ed ogni animo gentile resta commosso ed assorto rimembrando Leonida co' suoi trecento Spartani al passo delle Termopile, e quella memoranda iscrizione vergata ad eternarne il valore: Passaggiero va a Sparta, e riferisci che qui tutti perimmo per obbedire alle leggi della patria. Dico solo che il sentimento del sublime producendosi dall'intuizione d'una grandezza che superi da qualche lato la facoltà comprensiva, esso solo non basta a darci l'idea dell'eroismo virtuoso. L'esaltamento patriottico può come ogni altra passione, uscir fuori della norma dell'ordine; e n'usciva presso i pagani essendo viziato nella sua radice, come quello che pullulava non da ordinato amore ma da idolatria della patria. La sola religione rivelata ha saputo produrre il vero eroismo patriottico, mostrando la patria non come fine ma come termine di un dovere, e subordinando l'amor verso lei all'amor verso Dio. Il fare diversamente è un pervertire le idee, è uno spogliare il patriottismo della ragion di virtù, lasciandogli solo la qualità di passione esaltata, è un farne molla ad ogni ingiustizia, e alla più atroce tra tutte del vedovare l'umano individuo d'ogni pregio e dignità personale. Certamente gli esempî di eroismo nel sacrificare la vita per non mancare al dovere abbondano oltre ogni calcolo nel Cristianesimo sopra tutte le istorie pagane; e sarebbe ridicolo il solo voler confrontare le cifre delle miriadi di martiri d'ogni età, d'ogni sesso, d'ogni condizione, che giulivi soffrirono i più spietati tormenti per non profferire un solo accento contro il dettame della coscienza, con quelle che esprimono il numero degli eroi del gentilesimo. Contuttociò non può negarsi che questo conta più di noi vite sacrificate unicamente alla patria, comunque non vanti alcun martire della religione e di Dio, non quel medesimo Socrate, il quale prima di morire volle immolare un gallo ad Esculapio.
Qual è la ragione di tanta differenza di eroismo? La ragione vien suggerita dalla diversità che corre tra l'idea cristiana e l'idea gentilesca. La religione di Cristo raddrizzò i distorti concetti; restituì all'umano individuo la sua dignità naturale, insegnò che tutto era per l'uomo, e l'uomo per Dio. Il cristiano pertanto prodigo di tutto sè al sommo Signore e fonte unica di sua beatitudine sempiterna, non dubitò d'affrontare ogni danno e la morte stessa per obbedirgli in qualsivoglia precetto che da lui derivasse. E per[ci]ò in ogni cimento a cui venisse chiamato per rispetto a qualunque oggetto creato, misurò il sacrifizio coll'eterna norma delle divine leggi, e coll'ordine dovuto a Dio. Il pagano al contrario avendo perduto il verace concetto della divina natura, perdè altresì quello dell'uomo che in sè scolpita ne recava l'immagine, nè più risplendette a' suoi occhi il lucido faro che tra i marosi della vita dovea scorgerlo al porto desiderato. Pur sospinto da impeto di natura a cercare fuori di sè qualche oggetto più vasto che lo appagasse, si scontrò in un individuo più grande, nella massa cioè degl'individui, nel gran corpo della società a cui come membro apparteneva, e rispetto alla quale, stante il materialismo mentale in cui era caduto, si considerò non altrimenti che un atomo. Quivi adunque riconobbe il suo Dio, attesa la potenza, rimpetto alla quale l'individuo isolato e debole si dileguava, e quivi, riconobbe il suo ultimo fine, attesa la copia di beni materiali che ne coglieva. Quindi misurando sè e lo Stato colla comun legge delle grandezze fisiche, non dubitò che la gran massa sociale, che avea dinanzi allo sguardo, godesse del diritto di costituirsi in centro comune delle peculiari tendenze, esplicando una forza attrattiva e dominatrice delle molecole che a sè congiungeva. Dottrina cieca, inumana, ed empia, che disconosce i veraci rapporti di natura, froda l'uomo della sua nobiltà come persona del mondo, e rapisce a Dio benefico le sue fatture per farne olocausto a un idolo divoratore.

III.

In un altro articolo io risponderò agli arzigogoli di coloro che all'evidenza costante, universale, irrecusabile di tanti secoli, oppongono i vani loro discorsi fondati sulla metafisica possibilità di ciò che varrebbe a partorir la ragione, astrattamente considerata e secondo i delirî di non so qual progresso ch'essi vanno fantasticando. Se non vogliamo correr dietro alle chimere e stringer l'aria nel pugno, convien che stiamo a quello che l'esperienza ne insegna, e a ciò che mirando al passato ragionevolmente può giudicarsi dell'avvenire.
Se questo è vero, le lusinghe de' novelli rigeneratori son vane e bugiarde; noi seguitando le loro utopie non che progredire nell'incivilimento, saremmo costretti ad arretrarci, a torcere violentemente indietro il passo, a riedere alla coltura pagana. Il corso della civiltà europea sotto l'influenza del cristianesimo verrebbe interrotto, il lavoro e le fatiche di tanti secoli sarebbero dissipate, noi traboccheremmo di corto nella più orrenda barbarie, che sotto un'esterna vernice di pulitezza, nasconderebbe la più schifosa corruzione e l'avvilimento il più degradante dell'uomo.
E per acquisto sì lieto e benefico, noi dovremmo incontrar di buon animo i rovesci, le sventure, i delitti che seco porta, almen sugl'inizî, un politico rivolgimento? Imperocchè non giova illudersi prestando fede a quell'inettissima schiera d'uomini, che si vantan del nome di moderati; i quali amano le rivoluzioni, ma ne abborriscon gli eccessi, e aprendone il corso credono poterne arginare a lor senno l'impetuosa piena, sicchè tutto non allaghi ed abbatta. Quanto valgano le costoro non so se illusioni o menzogne lo scorgemmo a pruova, or son due anni, quando li vedemmo abilissimi ed efficaci a dar la spinta al movimento e mettere in mano agli empî le armi, ma inerti, impotenti, nulli ad impedirne le esorbitanze o far che almeno si procedesse con meno audacia e sfrontatezza.
Nè posso astenermi dall'accusarli almen di mal consigliata prudenza, per[ci]ò che scioccamente l'uomo si lusinga di potere schivare gli effetti, quando ne ha posta la cagione necessitata a produrli. O crederemo essere in nostra mano dare alle cose quel corso che più ci aggrada, contro l'irresistibile forza della natura? Gettatici per una finestra pretenderemmo arrestarci a mezz'aria, ovvero compierne la metà più precipitosa della caduta a maniera di comodissima discesa per venircene dolce dolce ad assiderci sul pavimento?
La rivoluzione è uno scompiglio dell'ordine preesistente; è un appello alla forza bruta; è un rompimento dell'armonia, qual ch'ella sia, onde i diversi elementi sociali stavano più o meno insieme rattemperati. Sciolti di sotto al freno, col quale l'autorità pubblica correggevali, e abbandonati una volta alla privata loro tendenza è impossibile pretenderne che non facciano il lor corso, e non seguan l'impulso individuale e divergente di che sono unicamente naturati. Che per[ci]ò di necessità ne conseguita disaccordo, lotta, urti scambievoli, prevalenza determinata non dalla ragione o dal diritto, ma dall'astuzia, dal caso, dalla maggiore o minor forza con che si scontrarono. Rimossa dalle menti l'idea della soggezion doverosa ai poteri di già esistenti come si vuole che essa quasi per incanto ritorni in sull'istante ad informarle per rispetto ai nuovi poteri che vengono a stabilirsi, e che una negazione tanto favorevole alle passioni ed alla licenza tosto si converta in affermazione che le contrasti? Converrà che essa prima a sazietà si disfoghi, nè ceda il campo se non quando il lungo correre le abbia fiaccato la prima lena.
Laonde un popolo rivoltato ti dà sembianza d'un liquido bollente, in cui il concepito calore abbia messe in moto tutte le parti, e spinte le infime ad investir le più alte per farsi strada e toccare la superficie. Tu vedi allora la società tutta rimescolarsi dall'imo fondo e subire un tremito convulsivo in ogni sua fibra. Il concepito movimento con forza, starei per dire fatale, ne spinge all'insù tutte le parti, e par che voglia che successivamente tocchino la superficie per dileguarsi nell'aria o ricadere nel fondo. Tutti pugnan da prima contro i sostenitori dell'antico regime; vinti costoro si continua la lotta contro quei che sostituironsi nella vece dei primi; e questi ancora sloggiati, ecco sorgere due opposti partiti, dei quali il più violento assale il più temperato e ne trionfa, per quindi esser combattuto e disfatto da un terzo, e così via discorrendo finchè stanchi dall'assiduo lottare e affievoliti per le successive perdite cadono in mano di chi sappia a tempo gettare loro sul collo il capestro.
La storia di tutti i tempi ci riproduce lo stesso spettacolo. Ma un'immagine assai viva ce ne porse la terribile rivoluzione francese al cadere dello scorso secolo. In essa procedendo da Mirabeau a Robespierre si videro successivamente i costituzionali pugnar contro i regî, i repubblicani prevaler poscia contro i costituzionali, nel seno stesso della repubblica sorgere i giacobini a spegnere la moderata Gironda, l'esaltata Montagna assalire alla sua volta la parte meno eccessiva, e tutti colla stesso accanimento, colla medesima intolleranza, sicchè nell'atto che le ceneri del fiero Marat recavansi nel Panteon, quelle del temperato Mirabeau ne venivano espulse.
E se la provvida mano di Dio non avesse arrestato tra noi il ruinoso summovimento, quasi in sul nascere, crediamo che non avremmo noi pure subite le stesse fasi, le stesse sciagure? O ci è chi pensi che la feccia de' nostri demagoghi non si chiuda nel seno anch'essa i suoi Danton, i suoi Marat, i suoi Robespierre, che quali sozzi serpenti si ascondon per ora nel fango, e di sotto al masso che li ricopre stan covando il lor veleno per vomitarlo nelle vene della società, come prima le loro teste sieno scoverchiate, e fatte libere ad addentarla? Un saggio in piccolo potemmo coglierne fin dai primi tempi, quando si videro di buon ora scavalcati e messi da banda i primi autori della rivoluzione, minacciati di peggio se non cedevano con pronta e pacifica ritirata. E già luttuose scene si apprestavano per l'umor poco cedevole di quelli che erano sottentrati, tra i quali e i nuovi aspiranti al potere già già s'ingaggiava la lotta. Chi fu che non credè allor di vedere in forma di lurido spettro la Francia ai tempi della convenzione, che lacera di mille ferite e balenando di luce sanguigna, proferisce questa spaventevol sentenza: tra pochi giorni mi seguirai? Sien grazie al benefico autore del tutto che ci campò di tanto periglio. Ma non si giunga al colmo della stolidezza, o della ingratitudine, col non comprenderne il benefizio o non trarne salutevol consiglio.

NOTE:

[1] Epist. 91.
[2] Sono degni di considerazione i lamenti di molti scrittori intorno al guasto universale della pubblica morale, tra i quali Cicerone così scriveva: «Appena aperti gli occhi alla luce, incontanente ci troviamo ravvolti in ogni genere di pravità, talchè sembriamo succhiar l'errore quasi col latte della nutrice. Quando poi siam restituiti ai parenti o affidati ai maestri, talmente c'imbeviamo di falsità svariatissime, che la verità ceda affatto alla vanità, e la natura stessa dietreggi in faccia alle opinioni che vanno in noi radicandosi. Che se poi si aggiunga come massimo precettore il popolo e l'intera moltitudine quasi da ogni parte consenziente nei vizî, allora l'infezione delle pravi opinioni arriva al colmo, e la natura medesima da noi vien meno.» (Tusc. I. 3.)

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