sabato 27 agosto 2016

LE IMPOSTE

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

La Civiltà Cattolica anno XXXIX, serie XIII, vol. XII (fasc. 924, 3 dic. 1888), Roma 1888 pag. 656-670.
Solo tra gli Economisti, Enrico Storch ha negato che l'imposta sia materia della scienza economica. Egli scrisse: «L'analisi degli effetti dell'imposta sul prezzo delle merci e conseguentemente sulla loro produzione e sul loro consumo non entra nel giro dell'Economia politica; essa appartiene alla legislazione finanziaria, di cui forma uno degli oggetti più importanti [1]
Ma giustamente Giambattista Say gli ha contraddetto; osservando essere impossibile trasandare l'imposta nello studio de' fenomeni economici, siccome quella che ha legame strettissimo colla produzione e distribuzione e col consumo della ricchezza. «Una legislazione finanziaria, la quale non fosse rischiarata dai lumi dell'Economia politica, sarebbe degna degli Arabi Beduini [2]
Gli scrittori di Economia politica ne parlano anzi diffusamente; e noi, benchè parchi espositori di questa scienza, crediamo non poterci passare di dirne, almee brevemente, alcuna cosa.

I.

LEGITTIMITÀ DELL'IMPOSTA.

L'imposta è quella parte di ricchezza, che lo Stato prende dai cittadini per sopperire alle pubbliche spese. Si suole anche chiamare contribuzione, tassa, tributo, dazio, balzello e via dicendo. Ma qualunque ne sia il nome, la cosa è sempre la stessa, cioè una prestazione pagata da' sudditi pe' bisogni economici dello Stato.
Basta questa semplice definizione per intenderne la legittimità. Chi ha un dovere da compiere, ha diritto ai mezzi, senza cui quel compimento di dovere non sarebbe possibile. Ora lo Stato ha dovere di procurare l'ordine pubblico, e l'ordine pubblico esige spesa. La sola macchina governativa ha mestieri di forti somme di moneta; e tanto maggiori, quanto più la società si trova innanzi nel sentiero dell'incivilimento. D'onde si caveranno coteste somme? Lo Stato, come tale, non è produttore. Esso non è agricoltore, nè manifatturiere, nè mercadante. In quanto Stato, non è neppur proprietario. I beni che diconsi demaniali, per lo più non sono produttivi; e, dove sono, non bastano al millesimo del bisogno. Lo Stato non ha altro fondo, che la borsa de' cittadini. Ad essa dunque conviene che ricorra. Ecco l'imposta. Essa dunque è giusta; e come tale l'Apostolo comanda ai fedeli di pagarla: Reddite omnibus debita; cui tributum, tributum; cui vectigal, vectigal; cui timorem, timorem; cui honorem, honorem [3]. [Rom. XIII, 7: «Rendete dunque a tutti quel, che è dovuto: a chi il tributo, il tributo: a chi la gabella, la gabella: a chi il timore, il timore: a chi l'onore, l'onore.» N.d.R.]
Tal ricorso è tanto più giusto, quanto che la contribuzione che lo Stato riscuote da' cittadini, è come un compenso dei grandi vantaggi ch'egli ad essi procura. L'Apostolo S. Paolo per dimostrare ai fedeli di Corinto quanto giustamente i sacri ministri esigono dai fedeli ciò che è necessario al proprio sostentamento, scriveva loro: Se noi vi procacciamo beni spirituali, sarà gran cosa che raccogliamo una qualche parte dei vostri beni materiali? Si spiritualia nos vobis seminavimus, magnum est si nos carnalia vestra metamus? [4] Lo stesso in certa guisa par che possa dire lo Stato ai contribuenti: Se io vi do sicurezza per le vostre persone e pei vostri averi e per l'esercizio de' vostri diritti, se vi do difesa da invasioni straniere, se vi do giustizia per dirimere le vostre liti, se vi do istruzione pe' vostri figliuoli, se vi do agevolezza pe' vostri commerci, e così del resto; sarà irragionevole che voi mi diate una particella delle vostre sostanze, acciò io possa sussistere ed operare? È certamente cotesto un sacrifizio che io vi chieggo; ma un sacrifizio ben ricambiato.
Se non che vanamente c'intratteniamo a dimostrare una verità, per sè stessa sì evidente; volgiamoci piuttosto ad accennare i limiti, tra cui l'imposta dev'esser contenuta, per dirsi legittima daddovero.
Cotesti limiti sorgono da un doppio riguardo, da quello cioè del soggetto da cui l'imposta si riscuote, e da quello del fine per cui si riscuote. Quanto al soggetto, convien che sia proporzionata alla facoltà economica del medesimo. L'imposta è un peso, e però suol chiamarsi eziandio gravezza. Se è peso, convien che non superi le forze di coloro, i quali debbono portarlo; altrimenti ne rimarranno schiacciati. A ciò ordinariamente non pensano i Governi; i quali per contrario son tutto intesi ad aggravare sempre più di tasse i popoli, fin quasi a spremerne il sangue. Quegli è riputato miglior Ministro di Finanze, il quale è più scaltro a trovar modo di far passare il denaro dalla saccoccia de' privati nelle casse del Fisco. Di che è avvenuto che il pagamento dell'imposta non si considera più generalmente come un dovere, che lega la coscienza; ma come iniqua oppressione, da cui a ciascuno sia lecito sottrarsi il meglio che sappia e possa.
Poichè non ci ha al mondo stranezza che non abbia trovato alcun difensore, ci furono di quelli, i quali dissero l'enormità delle imposte non tornar mai di aggravio ai cittadini, perchè lo Stato restituisce loro coll'una mano ciò che ha preso coll'altra. Ma gli Economisti giustamente rispondono che lo Stato ridà non gratuitamente il riscosso, bensì ricevendone un contracambio. Paga operai, ma ricevendone lavoro; compera dai mercadanti, ma ricevendone prodotti; stipendia impiegati, ma ricevendone servigi. Se questa è restituzione, dovremo dire in simil modo che il ladro ha restituito ad un venditore, per esempio, il denaro rubatogli, perchè lo ha speso presso lui in compra di oggetti.
L'altro punto che conviene tener d'occhio, acciocchè possa riputarsi legittima, un'imposta, la quale colpisca tutti senza divario, è che essa risponda ai bisogni reali dello Stato e non ai fittizi, e torni davvero, almeno indirettamente, in vantaggio di tutti, poveri o ricchi. Trista è l'usanza di moltiplicare le imposte, per impiegarne poscia il provento non in opere di comune utilità, ma in fabbriche sontuose, in teatri, in ridenti passeggi, in monumenti sfarzosi che divorino i milioni a iosa; mentre la maggior parte del popolo patisce fame! Chi oserà sostenere, dice Giambattista Say, che un padre debba assottigliare il pane da darsi a' figliuoli o toglier loro un drappo di dosso, per fornir la sua rata al lusso di pubblici monumenti? Qui osera soutenir qu'un père doit retrancher un morceau de pain, un vêtement chaud à ses enfants, pour fournir son contingent au luxe des monuments publics? [5] «Se la pubblica autorità, dice ottimamente il Taparelli, trae il diritto di gravezza dalla obbligazione che hanno i sudditi di concorrere al ben comune, quando essi non hanno l'obbligazione, l'autorità non ha il diritto. Or essi non hanno l'obbligazione, se non a quello che è necessario; il di più che riguarda l'agiatezza e forbitezza possono lecitamente spenderlo, quando non abbiano doveri più urgenti, ma non vi sono obbligati. Dunque allorchè trattasi del necessario, il Sovrano può da sè medesimo tassar la gravezza; ma quando trattasi di pura forbitezza, il superiore dovrà tassare coloro soltanto (individui o corpi), che bramando ottenere quei vantaggi, volontariamente consentono. Ben inteso che la società, non meno che l'individuo, riguarda come necessario non solamento quello, senza che non potrebbe esistere, ma quello eziandio, senza che esisterebbe stentatamente [6].» Si applichi questa giustissima teorica ai diversi casi, e si vedrà quanta ingiustizia spesso si annida in certe spese, che fanno i Governi sopra riscossioni che costringono il basso popolo a cena più magra e a men coperto giaciglio.

II.

IMPOSTE DIRETTE ED INDIRETTE.

L'imposta colpisce il reddito, cioè l'entrata di ciascheduno; sia che questa provenga da rendite sulla terra, sia che da profitti sul capitale, sia che da salarii sul lavoro. Ma come fare a conoscere esattamente siffatta entrata, per tassarla in giusta proporzione? «Se si potesse contare sulla buona fede del contribuente, osserva il Say, un solo mezzo basterebbe: sarebbe quello di domandargli, quali sono i suoi proventi annui, quale il suo reddito. Non ci vorrebbe altra base per la fissazione del suo contingente; non vi sarebbe che un'imposta sola; non mai alcuna imposta sarebbe stata più equa e sarebbe costata minore spesa per la sua esazione. È questo ciò che si praticava in Amburgo, prima della sciagura a cui soggiacque; e che non può aver luogo, se non in uno Stato repubblicano di poca estensione, dove i cittadini si conoscono a vicenda e dove le contribuzioni sono moderate [7]
Esclusa questa maniera impraticabile pei grandi Stati, massime se molto innanzi nella corruzione moderna, la faccenda di far corrispondere con piena esattezza la tassa alla ricchezza de' singoli, riesce difficilissima, e diciamo anzi impossibile. A superarne, in parte, la difficoltà, si è ricorso a varii espedienti; i quali possono ridursi a due classi: quella dei dazii diretti e a quella degl'indiretti. La prima è l'imposta che si riscuote direttamente dalle persone, sia che riguardi la ricchezza stabile, sia che la mobile. La seconda è l'imposta che si pone sulle mercanzie di consumo, vuoi di necessità, vuoi di lusso; la quale alzandone per conseguenza il prezzo, ricade sul compratore, a cui, per conseguenza, viene a chiedersi in modo indiretto. «Le tasse, scrive Stuart Mill, sono dirette o indirette. La tassa diretta è quella che è chiesta proprio direttamente alla persona che deve pagarla. Le tasse indirette sono quelle che sono chieste a una persona, nell'aspettativa e coll'intenzione che se ne risarcisca a spese di un'altra, come sarebbero quelle del dazio e della dogana. Il produttore o quegli che importa una merce, è tenuto a pagare per essa una tassa, non già perchè si voglia levare un tributo particolare su di esso, ma per tassare mediante lui i consumatori di quella, da cui si suppone che egli ricupererà la spesa con un accrescimento di prezzo [8]
Quanto alla prima di queste due maniere, pare a primo aspetto potersene conseguir l'eguaglianza, massime pei beni stabili, i quali sono facili a conoscersi dal Governo e valutarsi. Eppure non è così, nè anche rispetto a questi, attesa la variazione a cui continuamente soggiacciono, quanto al valore pei loro miglioramenti o deterioramenti e per le molte vicende della produzione e del prezzo de' prodotti. Nulla poi diciamo de' proventi, che costituiscono la così detta ricchezza mobile; formati di elementi mutabilissimi, quali sono i profitti de' capitali, i guadagni del commercio, o delle professioni e de' mestieri diversi. Rispetto a questi è impossibile trovare una misura comune accertata; e però l'imposta sopra di essi equivale a una vera imposta di capitazione [9].
Molto meno può conseguirsi l'eguaglianza nell'imposta indiretta, benchè al Governo ne riesca più facile l'applicazione. L'imposta indiretta è proporzionale al consumo; ma il consumo non è proporzionale alla ricchezza. Chi più consuma d'una derrata, più paga, proporzionatamente, dell'imposta che gravita sulla medesima. Ma non con eguale proporzione ne consuma più, chi è più ricco. La cosa apparirà evidente in un caso concreto. Sia per esempio il vino, considerato a rispetto d'un operaio che guadagni mille lire all'anno, e d'un ricco che ne abbia di rendita centomila. Il primo consumi, verbigrazia, un litro di vino al giorno; il secondo, anche se voglia ubbriacarsi ogni dì e lasciare ubbriacare l'intera famiglia, non può certamente consumarne ogni dì cento litri. Eppure ciò si richiederebbe affinchè la tassa sul vino ferisse la sua ricchezza proporzionatamente all'entrata dell'operaio. Lo stesso dicasi delle altre derrate, comuni al ricco ed al povero nel consumo, come sarebbe la farina, il sale, l'olio e cose simili. È questo un grave sconcio, ed irrimediabile dell'imposta indiretta, di essere cioè non proporzionale ma progressiva in ragione inversa della ricchezza: chi è meno ricco, ne paga più. L'altro vizio è di essere gravissima; siccome quella che pesa sopra tutti gli oggetti di cui facciamo uso; assorbendo così una parte grandissima de' nostri proventi. Nondimeno essa è meno avvertita, perchè si presenta confusa col prezzo stesso delle merci. Onde il Governo nello stabilire siffatte tasse inganna in certa guisa i cittadini, mascherando la soma, che loro impone. È una specie di Gabbo; e da questa voce vogliono alcuni (come Celio può stare) che sia derivato il nome di Gabbella.
Si cerca dagli Economisti sopra chi finalmente ricada l'imposta, qual ch'ella sia. A noi sembra evidente che essa al trar de' conti riesce a colpire il consumatore, benchè non sempre subitamente, ma spesso dopo molto girare. Il produttore può, in un modo o in un altro, rifarsi della tassa calcolandola negli affitti o nelle vendite. Ma il consumatore, come tale, non ha altro scudo contro di essa, se non quello di sminuire il proprio consumo. Se per effetto delle tasse alzeranno le pigioni ed il prezzo de' viveri, converrà che egli invece d'una casa di sei stanze si contenti d'una di quattro, e invece dell'imbandigione di tre vivande si restringa a quella di due. Onde ben può dirsi che quanto più mangia lo Stato, tanto meno mangerà il popolo.

III.

REGOLE DA SERVARSI

Tutti gli Economisti, qual più qual meno, nel trattar dell'imposta hanno stanziate leggi, da seguirsi, per evitare che quella riesca intollerabile ai cittadini e men proficua allo stesso Stato. Ma niuno, a nostro avviso, le ha così concisamente e chiaramente raccolte in brevi formole, come ha fatto il Sismondi. Noi dunque ci contenteremo di riportarle, perchè le riputiamo bastevoli: e sono le seguenti:
«1a. Qualunque imposta deve gravare sul reddito e non sul capitale. Nel primo caso lo Stato non ispende, se non ciò che i privati spenderebbero; nel secondo distrugge ciò che doveva far vivere e i privati e lo Stato [10].
«2a. Nello stabilire l'imposta non bisogna confondere il prodotto lordo annuale col reddito; poichè il primo comprende, oltre il detto reddito, anche tutto il capitale circolante; ed una parte di questo prodotto deve restare per mantenere o rinnovare tutti i capitali fissi, tutti i lavori accumulati, e la vita di tutti gli operai produttivi [11].
«3a. Essendo l'imposta quasi il prezzo che il cittadino paga pei godimenti sociali, non si potrà dimandare a colui, il quale non gode nulla: essa dunque non deve colpir mai quella parte di reddito, che è necessaria alla vita del contribuente [12].
4a. L'imposta non deve mai mettere in fuga la ricchezza cui colpisce; deve dunque tanto più essere moderata, quanto più quella ricchezza sia fuggevole di sua natura. Non deve mai colpire quella parte del reddito, la quale è necessaria perchè questo reddito si conservi .[13]»
A queste norme l'Autore aggiunge nel capitolo seguente le prescrizioni date da Adamo Smith, epilogandole in questo modo:
«Qualunque imposta è tanto peggiore, quanto più il sacrifizio, a cui assoggetta il popolo, è superiore al reddito che essa procaccia al Fisco; è tanto migliore, quanto più economica è la sua riscossione. È tanto peggiore, quanto più grande è il disagio che reca al contribuente l'epoca del suo pagamento; è tanto migliore quanto meglio è stato combinato per farla pagare in quel punto, in cui il contribuente avrà maggior comodo di farlo.
«È tanto peggiore, quanto più vessatoria inspezione la sua riscossione esige, quanto maggior violazione della libertà dei cittadini ne risulta; è tanto migliore, quanto meno di tentazione lascia alla frode, quanto meno di sorveglianza richiede, e quanto più volontario ne apparisce il pagamento [14]
Quanto a noi, insistiamo in due soli precetti.
Il primo è che le imposte generalmente siano, il più che è possibile, leggiere. Si era creduto che ciò sarebbesi agevolmente ottenuto coll'istituzione de' Governi rappresentativi. Ma l'esperienza ha mostrato il contrario. Sotto nessun Governo assoluto le tasse son divenute così oppressive, come sotto questa nuova forma di civil reggimento. Esse sono salite a tal segno, e si sono estese sì universalmente sopra tutte le parti della vita, che oggimai possono appellarsi un vero saccheggio delle sostanze private. E il peggio è che neppure hai contro chi pigliartela; perchè il Governo rappresentativo è, come diconlo, impersonale. Il Parlamento che fa la legge, non è che un'astrazione; i Ministri, che l'hanno recata all'atto, dimettonsi, e buona notte; chi s'è visto, s'è visto.
L'aumento delle tasse, ha fatto crescere smisuratamente il prezzo delle derrate, e l'affitto delle case; sicchè la gente povera non sa più come tirare innanzi la vita. Nè solo la gente povera languisce nella miseria; ma quella altresì di molto modesta fortuna non sa più come mantenersi nella sua mediocre condizione, ed è costretta a scender giù tra il basso popolo ed applicarsi a qualche mestiere. La classe media tende a sparire. Onde se l'alta provvidenza di Dio non soccorre, la società in breve sarà divisa in due sole classi: quella dei ricchi sfondolati, e quella dei nulla tenenti, la plebe ammiserita e l'aristocrazia del denaro.
Di qui segue il secondo precetto, cioè che l'imposta, qual che ella sia, non colpisca mai il puro necessario alla vita de' cittadini; il che fu già accennato più sopra nelle regole del Sismondi. Il perchè, quanto all'imposta diretta, le piccole proprietà dovrebbero andarne esenti; giacchè esse appena bastano, e il più delle volte neppur bastano, a soddisfare i primi ed essenziali bisogni del possessore. È orribile a vedere come spesso i piccoli proprietarii sono costretti a vendere il campicello o la casetta, per non avere onde pagare l'imposta che sopra vi pesa.
Quanto poi alle tasse indirette, esse dovrebbero risparmiare, il più che sia possibile, le materie alimentari di prima necessità, quali sono le farine, l'olio, il sale, il legname, il vino di qualità ordinaria e va dicendo. Le imposte sopra di esse privano frequentemente del vitto, puramente necessario, una gran parte del popolo. Ed è questa la ragione, per cui iniquissima tra tutte le tasse è riputata quella del macinato, la quale ferisce massimamente i più poveri, quelli cioè che vivono quasi unicamente di pane.
Ma, poichè le ingenti spese, a cui vanno soggetti gli Stati moderni, non permettono che si esentino del tutto da tasse gli oggetti dianzi detti, per essere di più generale consumo; si dovrebbe almeno cercare un correttivo al troppo peso, che ne proviene pel basso popolo, nella fissazione del salario degli operai, stabilendo, come altrove dicemmo, un termine minimo, più giù del quale non sia lecito discendere. Cotesto limite si dovrebbe poscia alzare, a misura che una novella imposta venisse a colpire le materie necessarie alla sostentazione. In tal guisa, facendo che il minimo de' salarii lasci all'operaio la possibilità di procacciarsi le cose, di cui ha uopo per vivere onestamente, gli si renderebbero più tollerabili le tasse, di cui quelle sono gravate.

IV.

SE L'IMPOSTA DEBBA ESSERE PROPORZIONALE OVVERAMENTE PROGRESSIVA.

Dicesi proporzionale l'imposta, quando la tassa, fissata dal Governo, resta sempre nella stessa proporzione colla ricchezza, qualunque sia l'incremento di questa; cotalchè quando, p. e., un reddito di cento lire ne paga allo Stato dieci, un reddito di mille ne paghi cento, uno di diecimila mille, cioè sempre il decimo dell'entrata. Per contrario dicesi progressiva l'imposta, quando la proporzione si varia in aumento, secondo che cresce la ricchezza; sicchè, per esempio, dove fino a mille lire di reddito la tassa è di dieci per cento, rispetto a un reddito che da mille sale a diecimila sia di dodici, rispetto a un reddito che da diecimila sale a centomila sia di quattordici, e così passo passo. Di che apparisce che tanto l'uno quanto l'altro di questi modi non può applicarsi che alla sola imposta diretta; a meno che nella fabbricazione di certi oggetti il Governo non fissi un limite, il quale possa oltrepassarsi dal fabbricante, se vuole, ma pagando una tassa più elevata. In ciò certamente si avrebbe una qualche progressione, benchè sui generis, nella stessa imposta indiretta.
Gli Economisti discordano tra loro, nel definire quale delle predette due maniere d'imposta sia preferibile. Adamo Smith sembra inculcare la seconda: perocchè, osservando che se la tassa sulle case si pagasse non dal proprietario, ma dall'inquilino, essa peserebbe più sopra i ricchi che sopra i poveri [15]; soggiunge: «Non è però del tutto irragionevole che i ricchi contribuiscano alle pubbliche spese non solamente in proporzione della loro entrata, ma ancora qualche cosa più oltre di questa proporzione [16].» Assai più esplicito è Giambattista Say, il quale risolutamente dice: «Non temerò di pronunziare che la sola imposta progressiva è equa [17].» La qual sentenza ha la conferma d'un eminente filosofo, il Taparelli, là dove scrive: «Un'altra osservazione importante, che deriva dal principio qui stabilito è la ingiustizia della semplice proporzione di peso e forze; perocchè la società dovendo a ciascuno procacciare il suo bene a proporzione della importanza de' diritti; il diritto del povero alla sussistenza collide quello del ricco alla soprabbondante agiatezza. Dunque la imposizione progressiva è giusta [18]
Il Boccardo nega che lo Smith approvi l'imposta progressiva, e chiama leggieri coloro, i quali si appoggiano alle citate parole: «Per vero dire (così egli) io preferirei che Adamo Smith non si fosse lasciato sfuggire queste poco prudenti parole, che diedero ad uomini leggieri argomento d'appoggiarsi a tanta autorità [19].» Vogliamo credere che tra quest'uomini leggieri non annoveri il Say, il quale senza titubanza attribuisce ad Adamo Smith quella opinione, scrivendo: «Montesquieu l'abbraccia pienamente, come la sola equa, ed Adamo Smith, il quale aveva idee molto più giuste su i veri interessi della società, l'approva del pari [20].» Ma un gran numero di Economisti la rigetta, siccome ingiusta e nociva. Lo Stuart Mill dice: «Si è sostenuto tanto in Inghilterra, quanto nel Continente l'imposta graduata e progressiva sulla proprietà, dicendosi che lo Stato dovrebbe valersi delle tasse come di un mezzo per temperare la ineguaglianza della ricchezza. Io desidero al par di ogni altro che si diminuiscano quelle ineguaglianze, ma non in modo che faccia cessare il lavoro e l'accumulazione de' capitali. Il tassare le grandi rendite in proporzione maggiore delle piccole, gli è mettere un balzello sull'industria e l'economia; imporre una pena sopra alcuni, per aver lavorato di più e risparmiato dì più de' loro vicini. La è una tassa parziale, una specie di furto... Rispetto alle grandi ricchezze acquistate in dono e per eredità, il poter legarle fa parte del diritto di proprietà, come il potere di usarle; non vi è proprietà vera, se chi la possiede non è libero di darla ad altri [21].» Lo stesso dicono, in altri termini, altri scrittori di non minore autorità.
Noi non osiamo dare giudizio definitivo in cosa sì scabrosa e si controversa. Nondimeno ci permettiamo di affermare che le ragioni, recate dagli avversarii dell'imposta progressiva, non ci sembrano abbastanza valevoli. Il Mill, come abbiamo veduto, la chiama una specie di furto. Perchè? L'Autore non ne reca altra prova, se non l'esser ella una pena della parsimonia e dell'industria, che ha prodotta nel ricco la sua ricchezza. Veramente le sterminate ricchezze di alcuni, massime se Ebrei, non sempre son procedute da industria onesta e da risparmii. Ma sia nulla di ciò; il certo è che se quella ragione valesse, avrebbe forza altresì contro l'imposta proporzionale. Imperocchè anche sotto di essa, taluno potrebbe dire allo Stato: Perchè da me pretendete diecimila lire d'imposta, mentre dal tale altro ne pretendete soltanto mille? — La cagione di questo divario si è, che quegli ha solo diecimila lire di rendita, mentre voi ne avete centomila, cioè il decuplo. — Se io ho il decuplo di ricchezza, ciò è dovuto alla mia maggiore industria ed economia o a quella de' miei antenati. Voi dunque punite me, per aver faticato di più e speso meno, ovvero punite in me il lavoro e la parsimonia de' miei maggiori. Cotesta è una specie di furto. —
Che ti sembra, o lettore, di questo ragionamento? Non lo ravvisi per un discorso fuor di proposito? L'imposta considera la ricchezza de' cittadini, non secondo la sua origine, ma secondo l'obbligo che essi hanno di concorrere con la medesima, alle pubbliche spese. Sotto tale riguardo l'imposta progressiva apparisce, non furto, ma atto di giustizia distributiva. L'imposta, come dicemmo, è un peso ed un compenso. Come peso, è giustissimo che gravi alquanto più le spalle del forte, che non del debole. Come compenso, deve crescere o scemare, secondo il crescere o scemare dei vantaggi che il contribuente riceve. Ora si considerino tutti i vantaggi che si procacciano ai cittadini dallo Stato, e si vedrà che il ricco ne partecipa in copia smisuratamente maggiore che non il povero o quasi povero. Le Università, i Musei, i Gabinetti scientifici, le biblioteche occupano molto il ricco; ma il povero non sa che farsene, bastando pei suoi figliuoli una scuola elementare, e questa stessa egli, per ottime ragioni, va a cercare non negl'istituti governativi, ma in quelli della Chiesa o de' privati benefattori. La grandezza nazionale commuove potentemente e tiene a sè volto l'animo de' ricchi; ma il povero ben poco vi pensa, tutto inteso, come è, a procacciarsi il vitto quotidiano. Della stessa tutela personale o reale il povero ha ben poco bisogno; perchè la stessa sua povertà lo francheggia: Cantabit vacuus coram latrone viator. [«Privo di denaro, il viandante canterà in faccia al ladro». Giovenale, sat. X, v. 22. N.d.R.] Chi volete che gli rapisca le sostanze che non ha, o gl'insidii una vita, tirata innanzi tra le privazioni e la fatica? Più, l'imposta indiretta, che il povero paga sulle derrate, è per lui, come più sopra vedemmo, progressiva [22]. Non parrebbe adunque giusto che e converso l'imposta diretta sia progressiva a rispetto del ricco?
Un'altra difficoltà suol proporsi, ed è che la tassa progressiva mena all'assurdo di fare assorbire, col suo crescere continuato, l'intero reddito. Ma è facile la risposta che ad evitare un tale sconcio basta che ogni nuovo accrescimento d'imposta non cada se non sulla parte che eccede l'antecedente quantità di ricchezza, e si fermi ad un dato punto. Per esempio, si stabilisca che l'imposta sia del dieci per cento fino alla rendita di diecimila lire; del dodici sul solo aumento ulteriore fino a ventimila; del quattordici sul nuovo aumento fino a trentamila, e così via via; finchè giunta che sia la tassa al sessanta per cento sugli ultimi diecimila, non s'alzi più oltre, ma resti immota per tutti i nuovi accrescimenti di ricchezza. Quell'ultimo sessanta per cento non colpirebbe che gli ultimi diecimila lire di un reddito, pervenuto alla bella cifra di trecentodiecimila lire annue.
E così viene anche ovviato all'altra obbiezione, cioè che i proprietarii sarebbero sconfortati dall'applicare i loro capitali all'acquisto di nuove ricchezze. No; finchè la tassa non assorbe l'intero reddito, ma ne lascia una buona parte al possessore, questi avrà sempre stimolo a crescere la sua fortuna e quindi ad applicare i suoi capitali all'industria.
Infine si oppone che i grandi proprietarii, a fine di fuggire la tassa progressiva, cercherebbero di mascherare le loro rendite, e forse smembrerebbero le loro possessioni. Ma il Say giustamente osserva che il contribuente è stimolato a nascondere il suo patrimonio, anche quando la tassa è semplicemente proporzionale; e se la progressione dell'imposta offre motivo a sparpagliare la proprietà, altri motivi più potenti inducono a conservarla concentrata. Le sole grandi tenute si prestano ad aver solidi fittaiuoli, e non hanno bisogno di moltiplicar fabbricati, e dànno agio a metodi di coltura più speditivi ed all'allevamento di numerose greggi.
Del resto bisogna osservare che l'imposta, qualunque sistema si abbracci, non può mai cansarsi da tutti gl'inconvenienti; e che massimo tra questi è l'offesa dell'equità a danno del povero. Or tale offesa sembra inchiudersi necessariamente nell'imposta proporzionale. Agguagliare nella gravezza il necessario col superfluo, più che un'ingiustizia, è un assurdo; ed ingiustizia insieme ed assurdo è altresì il ritenere, in pregiudizio del povero, la progressione nell'imposta indiretta, e ricusarla, per non nuocere al ricco, nell'imposta diretta.

NOTE:

[1] Corso di Economia politica ecc. di Enrico Storch con note di Giambattista Say, parte prima, lib. IV, cap. III.
[2] Vedi la sua nota nel luogo dianzi citato.
[3] Ad Rom. XIII, 7.
[4] Prima ad Cor. IX, 11.
[5] Traité d’Économie politique liv. III c. IX.
[6] Saggio di diritto naturale. Dissertazione V, capo VI.
[7] Traitè ecc. liv. III, ch. X.
[8] Principii di Economia politica, lib. V. cap. III.
[9] Imposta di capitazione dicevasi quella, che tassava i cittadini per capita, secondo una ricchezza presunta o il loro grado sociale. Si abbandonò, perchè riconosciuta viziosissima. Ma oggidì sembra ripresa, mediante l'imposta sulla ricchezza mobile. Di essa Adamo Smith parla così: «Le imposte di capitazione, qualora si tenti di proporzionarle alla fortuna o entrata di ciascun contribuente, diventano intrinsecamente arbitrarie. Lo stato della fortuna di un uomo varia da un anno all'altro; e senza una inquisizione più intollerabile che qualunque imposta, e rinnoverata almeno annualmente, non può essere valutata altrimenti che per congettura. Ondechè la ripartizione di simile imposta deve nei più de' casi dipendere dal buono o cattivo umore di coloro che la fanno, e deve per conseguenza essere arbitraria ed incerta. Se poi le imposte di capitazione si vogliono proporzionare non alla supposta fortuna, ma al grado di ciascun contribuente, diventano affatto ineguali, essendo bene spesso ineguali le condizioni della fortuna nella medesima condizione del grado. Il perchè tali imposte, se si cerca di renderle uguali, diventano del tutto arbitrarie ed incerte; e se si cerca di renderle certe e non soggette all'arbitrio, diventano del tutto ineguali.» Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Lib. quinto, capit. II, parte 2.a art. IV.
[10] Scemando o venendo meno i capitali, scema o vien meno la produzione.
[11] Il solo reddito netto è propriamente reddito; del lordo una parte è mero risarcimento di spese fatte.
[12] Quindi sono ingiuste quelle tasse, che vengono principalmente a gravare sul minuto popolo e sulla classe più misera della società.
[13] Questa regola si riferisce segnatamente ai profitti, che provengono dai capitali, e massime dai capitali circolanti.
[14] Nuovi principii di Economia politica, Libro sesto, cap. II e III.
[15] Si avrebbe anche il vantaggio di rimuovere l'enorme ingiustizia, che si commette da qualche Governo, di volere riscuotere l'imposta fondiaria, anche sulle case che restano senz'affitto.
[16] Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni; lib. V, cap. II, parte 2a.a, a. 1.
[17] Traitè etc. liv. III, ch. IX.
[18] Saggio di Diritto naturale. Dissert. V, cap. VI.
[19] Trattato teorico-pratico di Economia politica, vol. III, sez. III, cap. III.
[20] Cours Complet etc. Partie VIII, ch. 4.
[21] Principii di Economia politica. Libro V, cap. 2.
[22] Giuseppe Garnier notando come le gravezze indirette, a preferenza delle altre, sono mal ripartite, dice: «Citiamo un esempio: Trenta franchi sopra una botte di vino di trecento franchi non sono che il dieci per cento; essi formano al contrario un dazio del cento per cento sul vino del povero.» Elementi dell'Economia politica, seconda parte, cap. XXII. Ciò forse è esagerato; ma certo è che l'imposta sul consumo, a rispetto del povero è più grave e progredisce in ragione diretta della sua povertà.

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