LE IMPOSTE
R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.
La Civiltà Cattolica anno XXXIX, serie XIII, vol. XII (fasc. 924, 3 dic. 1888), Roma 1888 pag. 656-670.
Solo tra gli Economisti, Enrico Storch ha negato che l'imposta sia
materia della scienza economica. Egli scrisse: «L'analisi degli
effetti dell'imposta sul prezzo delle merci e conseguentemente sulla
loro produzione e sul loro consumo non entra nel giro dell'Economia
politica; essa appartiene alla legislazione finanziaria, di cui forma
uno degli oggetti più importanti [1].»
Ma giustamente Giambattista Say gli ha contraddetto; osservando
essere impossibile trasandare l'imposta nello studio de' fenomeni
economici, siccome quella che ha legame strettissimo colla produzione
e distribuzione e col consumo della ricchezza. «Una legislazione
finanziaria, la quale non fosse rischiarata dai lumi dell'Economia
politica, sarebbe degna degli Arabi Beduini [2].»
Gli scrittori di Economia politica ne parlano anzi diffusamente; e
noi, benchè parchi espositori di questa scienza, crediamo non
poterci passare di dirne, almee brevemente, alcuna cosa.
I.
LEGITTIMITÀ DELL'IMPOSTA.
L'imposta è quella parte di ricchezza, che lo Stato prende dai
cittadini per sopperire alle pubbliche spese. Si suole anche chiamare
contribuzione, tassa, tributo, dazio, balzello e via dicendo. Ma
qualunque ne sia il nome, la cosa è sempre la stessa, cioè
una prestazione pagata da' sudditi pe' bisogni economici dello Stato.
Basta questa semplice definizione per intenderne la
legittimità. Chi ha un dovere da compiere, ha diritto ai mezzi,
senza cui quel compimento di dovere non sarebbe possibile. Ora lo
Stato ha dovere di procurare l'ordine pubblico, e l'ordine pubblico
esige spesa. La sola macchina governativa ha mestieri di forti somme
di moneta; e tanto maggiori, quanto più la società si trova
innanzi nel sentiero dell'incivilimento. D'onde si caveranno coteste
somme? Lo Stato, come tale, non è produttore. Esso non è
agricoltore, nè manifatturiere, nè mercadante. In quanto
Stato, non è neppur proprietario. I beni che diconsi demaniali,
per lo più non sono produttivi; e, dove sono, non bastano al
millesimo del bisogno. Lo Stato non ha altro fondo, che la borsa de'
cittadini. Ad essa dunque conviene che ricorra. Ecco l'imposta. Essa
dunque è giusta; e come tale l'Apostolo comanda ai fedeli di
pagarla: Reddite omnibus debita;
cui tributum, tributum; cui vectigal, vectigal; cui timorem,
timorem; cui honorem, honorem [3].
[Rom. XIII, 7: «Rendete dunque a tutti quel, che è
dovuto: a chi il tributo, il tributo: a chi la gabella, la gabella:
a chi il timore, il timore: a chi l'onore, l'onore.» N.d.R.]
Tal ricorso è tanto più giusto, quanto che la
contribuzione che lo Stato riscuote da' cittadini, è come un
compenso dei grandi vantaggi ch'egli ad essi procura. L'Apostolo S.
Paolo per dimostrare ai fedeli di Corinto quanto giustamente i sacri
ministri esigono dai fedeli ciò che è necessario al proprio
sostentamento, scriveva loro: Se noi vi procacciamo beni spirituali,
sarà gran cosa che raccogliamo una qualche parte dei vostri beni
materiali? Si spiritualia nos
vobis seminavimus, magnum est si nos carnalia vestra metamus?
[4] Lo stesso in certa guisa par
che possa dire lo Stato ai contribuenti: Se io vi do sicurezza per le
vostre persone e pei vostri averi e per l'esercizio de' vostri
diritti, se vi do difesa da invasioni straniere, se vi do giustizia
per dirimere le vostre liti, se vi do istruzione pe' vostri figliuoli,
se vi do agevolezza pe' vostri commerci, e così del resto;
sarà irragionevole che voi mi diate una particella delle vostre
sostanze, acciò io possa sussistere ed operare? È certamente
cotesto un sacrifizio che io vi chieggo; ma un sacrifizio ben
ricambiato.
Se non che vanamente c'intratteniamo a dimostrare una verità,
per sè stessa sì evidente; volgiamoci piuttosto ad accennare
i limiti, tra cui l'imposta dev'esser contenuta, per dirsi legittima
daddovero.
Cotesti limiti sorgono da un doppio riguardo, da quello cioè
del soggetto da cui l'imposta si riscuote, e da quello del fine per
cui si riscuote. Quanto al soggetto, convien che sia proporzionata
alla facoltà economica del medesimo. L'imposta è un peso, e
però suol chiamarsi eziandio gravezza. Se è peso, convien
che non superi le forze di coloro, i quali debbono portarlo;
altrimenti ne rimarranno schiacciati. A ciò ordinariamente non
pensano i Governi; i quali per contrario son tutto intesi ad aggravare
sempre più di tasse i popoli, fin quasi a spremerne il sangue.
Quegli è riputato miglior Ministro di Finanze, il quale è
più scaltro a trovar modo di far passare il denaro dalla
saccoccia de' privati nelle casse del Fisco. Di che è avvenuto
che il pagamento dell'imposta non si considera più generalmente
come un dovere, che lega la coscienza; ma come iniqua oppressione, da
cui a ciascuno sia lecito sottrarsi il meglio che sappia e possa.
Poichè non ci ha al mondo stranezza che non abbia trovato alcun
difensore, ci furono di quelli, i quali dissero l'enormità delle
imposte non tornar mai di aggravio ai cittadini, perchè lo Stato
restituisce loro coll'una mano ciò che ha preso coll'altra. Ma
gli Economisti giustamente rispondono che lo Stato ridà non
gratuitamente il riscosso, bensì ricevendone un contracambio.
Paga operai, ma ricevendone lavoro; compera dai mercadanti, ma
ricevendone prodotti; stipendia impiegati, ma ricevendone servigi. Se
questa è restituzione, dovremo dire in simil modo che il ladro ha
restituito ad un venditore, per esempio, il denaro rubatogli,
perchè lo ha speso presso lui in compra di oggetti.
L'altro punto che conviene tener d'occhio, acciocchè possa
riputarsi legittima, un'imposta, la quale colpisca tutti senza
divario, è che essa risponda ai bisogni reali dello Stato e non
ai fittizi, e torni davvero, almeno indirettamente, in vantaggio di
tutti, poveri o ricchi. Trista è l'usanza di moltiplicare le
imposte, per impiegarne poscia il provento non in opere di comune
utilità, ma in fabbriche sontuose, in teatri, in ridenti
passeggi, in monumenti sfarzosi che divorino i milioni a iosa; mentre
la maggior parte del popolo patisce fame! Chi oserà sostenere,
dice Giambattista Say, che un padre debba assottigliare il pane da
darsi a' figliuoli o toglier loro un drappo di dosso, per fornir la
sua rata al lusso di pubblici monumenti? Qui
osera
soutenir qu'un père doit retrancher un morceau de pain, un
vêtement chaud à ses enfants, pour fournir son contingent
au luxe des monuments publics? [5]
«Se la pubblica autorità, dice ottimamente il Taparelli,
trae il diritto di gravezza
dalla obbligazione che
hanno i sudditi di concorrere al ben comune, quando essi non hanno l'obbligazione, l'autorità
non ha il diritto. Or essi
non hanno l'obbligazione, se non a quello che è necessario;
il di più che riguarda l'agiatezza e forbitezza possono
lecitamente spenderlo, quando non abbiano doveri più
urgenti, ma non vi sono obbligati. Dunque allorchè trattasi del necessario, il Sovrano può
da sè medesimo tassar la gravezza;
ma quando trattasi di pura forbitezza, il superiore dovrà tassare
coloro soltanto (individui o corpi), che bramando ottenere quei
vantaggi, volontariamente
consentono. Ben inteso che la società, non meno che l'individuo,
riguarda come necessario non solamento quello, senza che non potrebbe
esistere, ma quello eziandio, senza che esisterebbe stentatamente [6].» Si applichi questa
giustissima teorica ai diversi casi, e si vedrà quanta
ingiustizia spesso si annida in certe spese, che fanno i Governi sopra
riscossioni che costringono il basso popolo a cena più magra e a
men coperto giaciglio.
II.
IMPOSTE DIRETTE ED INDIRETTE.
L'imposta colpisce il reddito, cioè l'entrata di ciascheduno;
sia che questa provenga da rendite sulla terra, sia che da profitti
sul capitale, sia che da salarii sul lavoro. Ma come fare a conoscere
esattamente siffatta entrata, per tassarla in giusta proporzione?
«Se si potesse contare sulla buona fede del contribuente, osserva
il Say, un solo mezzo basterebbe: sarebbe quello di domandargli, quali
sono i suoi proventi annui, quale il suo reddito. Non ci vorrebbe
altra base per la fissazione del suo contingente; non vi sarebbe che
un'imposta sola; non mai alcuna imposta sarebbe stata più equa e
sarebbe costata minore spesa per la sua esazione. È questo
ciò che si praticava in Amburgo, prima della sciagura a cui
soggiacque; e che non può aver luogo, se non in uno Stato
repubblicano di poca estensione, dove i cittadini si conoscono a
vicenda e dove le contribuzioni sono moderate [7].»
Esclusa questa maniera impraticabile pei grandi Stati, massime se
molto innanzi nella corruzione moderna, la faccenda di far
corrispondere con piena esattezza la tassa alla ricchezza de' singoli,
riesce difficilissima, e diciamo anzi impossibile. A superarne, in
parte, la difficoltà, si è ricorso a varii espedienti; i
quali possono ridursi a due classi: quella dei dazii diretti
e a quella degl'indiretti.
La prima è l'imposta che si riscuote direttamente dalle persone,
sia che riguardi la ricchezza stabile,
sia che la mobile. La
seconda è l'imposta che si pone sulle mercanzie di consumo, vuoi
di necessità, vuoi di lusso; la quale alzandone per conseguenza
il prezzo, ricade sul compratore, a cui, per conseguenza, viene a
chiedersi in modo indiretto. «Le tasse, scrive Stuart Mill, sono
dirette o indirette. La tassa diretta è quella che è chiesta
proprio direttamente alla persona che deve pagarla. Le tasse indirette
sono quelle che sono chieste a una persona, nell'aspettativa e
coll'intenzione che se ne risarcisca a spese di un'altra, come
sarebbero quelle del dazio e della dogana. Il produttore o quegli che
importa una merce, è tenuto a pagare per essa una tassa, non
già perchè si voglia levare un tributo particolare su di
esso, ma per tassare mediante lui i consumatori di quella, da cui si
suppone che egli ricupererà la spesa con un accrescimento di
prezzo [8].»
Quanto alla prima di queste due maniere, pare a primo aspetto
potersene conseguir l'eguaglianza, massime pei beni stabili, i quali
sono facili a conoscersi dal Governo e valutarsi. Eppure non è
così, nè anche rispetto a questi, attesa la variazione a cui
continuamente soggiacciono, quanto al valore pei loro miglioramenti o
deterioramenti e per le molte vicende della produzione e del prezzo
de' prodotti. Nulla poi diciamo de' proventi, che costituiscono la
così detta ricchezza mobile; formati di elementi mutabilissimi,
quali sono i profitti de' capitali, i guadagni del commercio, o delle
professioni e de' mestieri diversi. Rispetto a questi è
impossibile trovare una misura comune accertata; e però l'imposta
sopra di essi equivale a una vera imposta di capitazione [9].
Molto meno può conseguirsi l'eguaglianza nell'imposta indiretta,
benchè al Governo ne riesca più facile l'applicazione.
L'imposta indiretta è proporzionale al consumo; ma il consumo non
è proporzionale alla ricchezza. Chi più consuma d'una
derrata, più paga, proporzionatamente, dell'imposta che gravita
sulla medesima. Ma non con eguale proporzione ne consuma più, chi
è più ricco. La cosa apparirà evidente in un caso
concreto. Sia per esempio il vino, considerato a rispetto d'un operaio
che guadagni mille lire all'anno, e d'un ricco che ne abbia di rendita
centomila. Il primo consumi, verbigrazia, un litro di vino al giorno;
il secondo, anche se voglia ubbriacarsi ogni dì e lasciare
ubbriacare l'intera famiglia, non può certamente consumarne ogni
dì cento litri. Eppure ciò si richiederebbe affinchè la
tassa sul vino ferisse la sua ricchezza proporzionatamente all'entrata
dell'operaio. Lo stesso dicasi delle altre derrate, comuni al ricco ed
al povero nel consumo, come sarebbe la farina, il sale, l'olio e cose
simili. È questo un grave sconcio, ed irrimediabile dell'imposta
indiretta, di essere cioè non proporzionale ma progressiva in
ragione inversa della ricchezza: chi è meno ricco, ne paga
più. L'altro vizio è di essere gravissima; siccome quella
che pesa sopra tutti gli oggetti di cui facciamo uso; assorbendo
così una parte grandissima de' nostri proventi. Nondimeno essa
è meno avvertita, perchè si presenta confusa col prezzo
stesso delle merci. Onde il Governo nello stabilire siffatte tasse
inganna in certa guisa i cittadini, mascherando la soma, che loro
impone. È una specie di Gabbo;
e da questa voce vogliono alcuni (come Celio può stare) che sia
derivato il nome di Gabbella.
Si cerca dagli Economisti sopra chi finalmente ricada l'imposta,
qual ch'ella sia. A noi sembra evidente che essa al trar de' conti
riesce a colpire il consumatore, benchè non sempre subitamente,
ma spesso dopo molto girare. Il produttore può, in un modo o in
un altro, rifarsi della tassa calcolandola negli affitti o nelle
vendite. Ma il consumatore, come tale, non ha altro scudo contro di
essa, se non quello di sminuire il proprio consumo. Se per effetto
delle tasse alzeranno le pigioni ed il prezzo de' viveri,
converrà che egli invece d'una casa di sei stanze si contenti
d'una di quattro, e invece dell'imbandigione di tre vivande si
restringa a quella di due. Onde ben può dirsi che quanto più
mangia lo Stato, tanto meno mangerà il popolo.
III.
REGOLE DA SERVARSI
Tutti gli Economisti, qual più qual meno, nel trattar
dell'imposta hanno stanziate leggi, da seguirsi, per evitare che
quella riesca intollerabile ai cittadini e men proficua allo stesso
Stato. Ma niuno, a nostro avviso, le ha così concisamente e
chiaramente raccolte in brevi formole, come ha fatto il Sismondi. Noi
dunque ci contenteremo di riportarle, perchè le riputiamo
bastevoli: e sono le seguenti:
«1a. Qualunque imposta
deve gravare sul reddito e non sul capitale. Nel primo caso lo Stato
non ispende, se non ciò che i privati spenderebbero; nel secondo
distrugge ciò che doveva far vivere e i privati e lo Stato [10].
«2a. Nello stabilire
l'imposta non bisogna confondere il prodotto lordo annuale col
reddito; poichè il primo comprende, oltre il detto reddito, anche
tutto il capitale circolante; ed una parte di questo prodotto deve
restare per mantenere o rinnovare tutti i capitali fissi, tutti i
lavori accumulati, e la vita di tutti gli operai produttivi [11].
«3a. Essendo l'imposta
quasi il prezzo che il cittadino paga pei godimenti sociali, non si
potrà dimandare a colui, il quale non gode nulla: essa dunque non
deve colpir mai quella parte di reddito, che è necessaria alla
vita del contribuente [12].
4a. L'imposta non deve mai
mettere in fuga la ricchezza cui colpisce; deve dunque tanto più
essere moderata, quanto più quella ricchezza sia fuggevole di sua
natura. Non deve mai colpire quella parte del reddito, la quale è
necessaria perchè questo reddito si conservi .[13]»
A queste norme l'Autore aggiunge nel capitolo seguente le
prescrizioni date da Adamo Smith, epilogandole in questo modo:
«Qualunque imposta è tanto peggiore, quanto più il
sacrifizio, a cui assoggetta il popolo, è superiore al reddito
che essa procaccia al Fisco; è tanto migliore, quanto più
economica è la sua riscossione. È tanto peggiore, quanto
più grande è il disagio che reca al contribuente l'epoca del
suo pagamento; è tanto migliore quanto meglio è stato
combinato per farla pagare in quel punto, in cui il contribuente
avrà maggior comodo di farlo.
«È tanto peggiore, quanto più vessatoria inspezione la
sua riscossione esige, quanto maggior violazione della libertà
dei cittadini ne risulta; è tanto migliore, quanto meno di
tentazione lascia alla frode, quanto meno di sorveglianza richiede, e
quanto più volontario ne apparisce il pagamento [14].»
Quanto a noi, insistiamo in due soli precetti.
Il primo è che le imposte generalmente siano, il più che
è possibile, leggiere. Si era creduto che ciò sarebbesi
agevolmente ottenuto coll'istituzione de' Governi rappresentativi. Ma
l'esperienza ha mostrato il contrario. Sotto nessun Governo assoluto
le tasse son divenute così oppressive, come sotto questa nuova
forma di civil reggimento. Esse sono salite a tal segno, e si sono
estese sì universalmente sopra tutte le parti della vita, che
oggimai possono appellarsi un vero saccheggio delle sostanze private.
E il peggio è che neppure hai contro chi pigliartela; perchè
il Governo rappresentativo è, come diconlo, impersonale. Il
Parlamento che fa la legge, non è che un'astrazione; i Ministri,
che l'hanno recata all'atto, dimettonsi, e buona notte; chi s'è
visto, s'è visto.
L'aumento delle tasse, ha fatto crescere smisuratamente il prezzo
delle derrate, e l'affitto delle case; sicchè la gente povera non
sa più come tirare innanzi la vita. Nè solo la gente povera
languisce nella miseria; ma quella altresì di molto modesta
fortuna non sa più come mantenersi nella sua mediocre condizione,
ed è costretta a scender giù tra il basso popolo ed
applicarsi a qualche mestiere. La classe media tende a sparire. Onde
se l'alta provvidenza di Dio non soccorre, la società in breve
sarà divisa in due sole classi: quella dei ricchi sfondolati, e
quella dei nulla tenenti, la plebe ammiserita e l'aristocrazia del
denaro.
Di qui segue il secondo precetto, cioè che l'imposta, qual che
ella sia, non colpisca mai il puro necessario alla vita de' cittadini;
il che fu già accennato più sopra nelle regole del Sismondi.
Il perchè, quanto all'imposta diretta,
le piccole proprietà dovrebbero andarne esenti; giacchè esse
appena bastano, e il più delle volte neppur bastano, a soddisfare
i primi ed essenziali bisogni del possessore. È orribile a vedere
come spesso i piccoli proprietarii sono costretti a vendere il
campicello o la casetta, per non avere onde pagare l'imposta che sopra
vi pesa.
Quanto poi alle tasse indirette,
esse dovrebbero risparmiare, il più che sia possibile, le materie
alimentari di prima necessità, quali sono le farine, l'olio, il
sale, il legname, il vino di qualità ordinaria e va dicendo. Le
imposte sopra di esse privano frequentemente del vitto, puramente
necessario, una gran parte del popolo. Ed è questa la ragione,
per cui iniquissima tra tutte le tasse è riputata quella del
macinato, la quale ferisce massimamente i più poveri, quelli
cioè che vivono quasi unicamente di pane.
Ma, poichè le ingenti spese, a cui vanno soggetti gli Stati
moderni, non permettono che si esentino del tutto da tasse gli oggetti
dianzi detti, per essere di più generale consumo; si dovrebbe
almeno cercare un correttivo al troppo peso, che ne proviene pel basso
popolo, nella fissazione del salario degli operai, stabilendo, come
altrove dicemmo, un termine minimo, più giù del quale non
sia lecito discendere. Cotesto limite si dovrebbe poscia alzare, a
misura che una novella imposta venisse a colpire le materie necessarie
alla sostentazione. In tal guisa, facendo che il minimo de' salarii
lasci all'operaio la possibilità di procacciarsi le cose, di cui
ha uopo per vivere onestamente, gli si renderebbero più
tollerabili le tasse, di cui quelle sono gravate.
IV.
SE L'IMPOSTA DEBBA ESSERE PROPORZIONALE OVVERAMENTE PROGRESSIVA.
Dicesi proporzionale
l'imposta, quando la tassa, fissata dal Governo, resta sempre nella
stessa proporzione colla ricchezza, qualunque sia l'incremento di
questa; cotalchè quando, p. e., un reddito di cento
lire ne paga allo Stato dieci,
un reddito di mille ne
paghi cento, uno di diecimila mille,
cioè sempre il decimo dell'entrata. Per contrario dicesi progressiva
l'imposta, quando la proporzione si varia in aumento, secondo che
cresce la ricchezza; sicchè, per esempio, dove fino a mille lire
di reddito la tassa è di dieci per cento, rispetto a un reddito
che da mille sale a diecimila sia di dodici, rispetto a un reddito che
da diecimila sale a centomila sia di quattordici, e così passo
passo. Di che apparisce che tanto l'uno quanto l'altro di questi modi
non può applicarsi che alla sola imposta diretta; a meno che
nella fabbricazione di certi oggetti il Governo non fissi un limite,
il quale possa oltrepassarsi dal fabbricante, se vuole, ma pagando una
tassa più elevata. In ciò certamente si avrebbe una qualche
progressione, benchè sui
generis, nella stessa imposta indiretta.
Gli Economisti discordano tra loro, nel definire quale delle
predette due maniere d'imposta sia preferibile. Adamo Smith sembra
inculcare la seconda: perocchè, osservando che se la tassa sulle
case si pagasse non dal proprietario, ma dall'inquilino, essa
peserebbe più sopra i ricchi che sopra i poveri [15]; soggiunge: «Non è però del
tutto irragionevole che i ricchi contribuiscano alle pubbliche spese
non solamente in proporzione della loro entrata, ma ancora qualche
cosa più oltre di questa proporzione [16].»
Assai
più esplicito è Giambattista Say, il quale risolutamente
dice: «Non temerò di pronunziare che la sola imposta
progressiva è equa [17].»
La
qual sentenza ha la conferma d'un eminente filosofo, il Taparelli,
là dove scrive: «Un'altra osservazione importante, che
deriva dal principio qui stabilito è la ingiustizia della
semplice proporzione di peso e
forze; perocchè la società dovendo a ciascuno
procacciare il suo bene a proporzione della importanza de' diritti; il
diritto del povero alla sussistenza collide quello del ricco alla
soprabbondante agiatezza. Dunque la imposizione progressiva
è giusta [18].»
Il Boccardo nega che lo Smith approvi l'imposta progressiva, e
chiama leggieri coloro, i
quali si appoggiano alle citate parole: «Per vero dire (così
egli) io preferirei che Adamo Smith non si fosse lasciato sfuggire
queste poco prudenti parole, che diedero ad uomini leggieri argomento
d'appoggiarsi a tanta autorità [19].»
Vogliamo credere che tra quest'uomini leggieri non annoveri il Say, il
quale senza titubanza attribuisce ad Adamo Smith quella opinione,
scrivendo: «Montesquieu l'abbraccia pienamente, come la sola
equa, ed Adamo Smith, il quale aveva idee molto più giuste su i
veri interessi della società, l'approva
del pari [20].» Ma un gran
numero di Economisti la rigetta, siccome ingiusta e nociva. Lo Stuart
Mill dice: «Si è sostenuto tanto in Inghilterra, quanto nel
Continente l'imposta graduata e progressiva sulla proprietà,
dicendosi che lo Stato dovrebbe valersi delle tasse come di un mezzo
per temperare la ineguaglianza della ricchezza. Io desidero al par di
ogni altro che si diminuiscano quelle ineguaglianze, ma non in modo
che faccia cessare il lavoro e l'accumulazione de' capitali. Il
tassare le grandi rendite in proporzione maggiore delle piccole, gli
è mettere un balzello sull'industria e l'economia; imporre una
pena sopra alcuni, per aver lavorato di più e risparmiato dì
più de' loro vicini. La è una tassa parziale, una specie di
furto... Rispetto alle grandi ricchezze acquistate in dono e per
eredità, il poter legarle fa parte del diritto di proprietà,
come il potere di usarle; non vi è proprietà vera, se chi la
possiede non è libero di darla ad altri [21].»
Lo
stesso dicono, in altri termini, altri scrittori di non minore
autorità.
Noi non osiamo dare giudizio definitivo in cosa sì scabrosa e si
controversa. Nondimeno ci permettiamo di affermare che le ragioni,
recate dagli avversarii dell'imposta progressiva, non ci sembrano
abbastanza valevoli. Il Mill, come abbiamo veduto, la chiama una
specie di furto. Perchè? L'Autore non ne reca altra prova, se non
l'esser ella una pena della parsimonia e dell'industria, che ha
prodotta nel ricco la sua ricchezza. Veramente le sterminate ricchezze
di alcuni, massime se Ebrei, non sempre son procedute da industria
onesta e da risparmii. Ma sia nulla di ciò; il certo è che
se quella ragione valesse, avrebbe forza altresì contro l'imposta
proporzionale. Imperocchè anche sotto di essa, taluno potrebbe
dire allo Stato: Perchè da me pretendete diecimila lire
d'imposta, mentre dal tale altro ne pretendete soltanto mille? —
La cagione di questo divario si è, che quegli ha solo diecimila
lire di rendita, mentre voi ne avete centomila, cioè il decuplo.
— Se io ho il decuplo di ricchezza, ciò è dovuto alla
mia maggiore industria ed economia o a quella de' miei antenati. Voi
dunque punite me, per aver faticato di più e speso meno, ovvero
punite in me il lavoro e la parsimonia de' miei maggiori. Cotesta
è una specie di furto. —
Che ti sembra, o lettore, di questo ragionamento? Non lo ravvisi per
un discorso fuor di proposito? L'imposta considera la ricchezza de'
cittadini, non secondo la sua origine, ma secondo l'obbligo che essi
hanno di concorrere con la medesima, alle pubbliche spese. Sotto tale
riguardo l'imposta progressiva apparisce, non furto, ma atto di
giustizia distributiva. L'imposta, come dicemmo, è un peso ed un
compenso. Come peso, è giustissimo che gravi alquanto più le
spalle del forte, che non del debole. Come compenso, deve crescere o
scemare, secondo il crescere o scemare dei vantaggi che il
contribuente riceve. Ora si considerino tutti i vantaggi che si
procacciano ai cittadini dallo Stato, e si vedrà che il ricco ne
partecipa in copia smisuratamente maggiore che non il povero o quasi
povero. Le Università, i Musei, i Gabinetti scientifici, le
biblioteche occupano molto il ricco; ma il povero non sa che farsene,
bastando pei suoi figliuoli una scuola elementare, e questa stessa
egli, per ottime ragioni, va a cercare non negl'istituti governativi,
ma in quelli della Chiesa o de' privati benefattori. La grandezza
nazionale commuove potentemente e tiene a sè volto l'animo de'
ricchi; ma il povero ben poco vi pensa, tutto inteso, come è, a
procacciarsi il vitto quotidiano. Della stessa tutela personale o
reale il povero ha ben poco bisogno; perchè la stessa sua
povertà lo francheggia: Cantabit
vacuus coram latrone viator. [«Privo di denaro,
il viandante canterà in faccia al ladro». Giovenale, sat.
X, v. 22. N.d.R.] Chi volete
che gli rapisca le sostanze che non ha, o gl'insidii una vita, tirata
innanzi tra le privazioni e la fatica? Più, l'imposta indiretta,
che il povero paga sulle derrate, è per lui, come più sopra
vedemmo, progressiva [22]. Non parrebbe adunque giusto che e converso
l'imposta diretta sia
progressiva a rispetto del ricco?
Un'altra difficoltà suol proporsi, ed è che la tassa
progressiva mena all'assurdo di fare assorbire, col suo crescere
continuato, l'intero reddito. Ma è facile la risposta che ad
evitare un tale sconcio basta che ogni nuovo accrescimento d'imposta
non cada se non sulla parte che eccede l'antecedente quantità di
ricchezza, e si fermi ad un dato punto. Per esempio, si stabilisca che
l'imposta sia del dieci per cento fino alla rendita di diecimila lire;
del dodici sul solo aumento ulteriore fino a ventimila; del
quattordici sul nuovo aumento fino a trentamila, e così via via;
finchè giunta che sia la tassa al sessanta per cento sugli ultimi
diecimila, non s'alzi più oltre, ma resti immota per tutti i
nuovi accrescimenti di ricchezza. Quell'ultimo sessanta per cento non
colpirebbe che gli ultimi diecimila lire di un reddito, pervenuto alla
bella cifra di trecentodiecimila lire annue.
E così viene anche ovviato all'altra obbiezione, cioè che i
proprietarii sarebbero sconfortati dall'applicare i loro capitali
all'acquisto di nuove ricchezze. No; finchè la tassa non assorbe
l'intero reddito, ma ne lascia una buona parte al possessore, questi
avrà sempre stimolo a crescere la sua fortuna e quindi ad
applicare i suoi capitali all'industria.
Infine si oppone che i grandi proprietarii, a fine di fuggire la
tassa progressiva, cercherebbero di mascherare le loro rendite, e
forse smembrerebbero le loro possessioni. Ma il Say giustamente
osserva che il contribuente è stimolato a nascondere il suo
patrimonio, anche quando la tassa è semplicemente proporzionale;
e se la progressione dell'imposta offre motivo a sparpagliare la
proprietà, altri motivi più potenti inducono a conservarla
concentrata. Le sole grandi tenute si prestano ad aver solidi
fittaiuoli, e non hanno bisogno di moltiplicar fabbricati, e
dànno agio a metodi di coltura più speditivi ed
all'allevamento di numerose greggi.
Del resto bisogna osservare che l'imposta, qualunque sistema si
abbracci, non può mai cansarsi da tutti gl'inconvenienti; e che
massimo tra questi è l'offesa dell'equità a danno del
povero. Or tale offesa sembra inchiudersi necessariamente nell'imposta
proporzionale. Agguagliare nella gravezza il necessario col superfluo,
più che un'ingiustizia, è un assurdo; ed ingiustizia insieme
ed assurdo è altresì il ritenere, in pregiudizio del povero,
la progressione nell'imposta indiretta, e ricusarla, per non nuocere
al ricco, nell'imposta diretta.
NOTE:
[1] Corso
di Economia politica ecc. di Enrico
Storch con note di Giambattista Say, parte prima, lib. IV,
cap. III.
[4] Prima ad Cor. IX, 11.
[9] Imposta di capitazione
dicevasi quella, che tassava i cittadini per
capita, secondo una ricchezza presunta o il loro grado
sociale. Si abbandonò, perchè riconosciuta viziosissima. Ma
oggidì sembra ripresa, mediante l'imposta sulla ricchezza mobile.
Di essa Adamo Smith parla così: «Le imposte di capitazione,
qualora si tenti di proporzionarle alla fortuna o entrata di ciascun
contribuente, diventano intrinsecamente arbitrarie. Lo stato della
fortuna di un uomo varia da un anno all'altro; e senza una
inquisizione più intollerabile che qualunque imposta, e
rinnoverata almeno annualmente, non può essere valutata
altrimenti che per congettura. Ondechè la ripartizione di simile
imposta deve nei più de' casi dipendere dal buono o cattivo umore
di coloro che la fanno, e deve per conseguenza essere arbitraria ed
incerta. Se poi le imposte di capitazione si vogliono proporzionare
non alla supposta fortuna, ma al grado di ciascun contribuente,
diventano affatto ineguali, essendo bene spesso ineguali le condizioni
della fortuna nella medesima condizione del grado. Il perchè tali
imposte, se si cerca di renderle uguali, diventano del tutto
arbitrarie ed incerte; e se si cerca di renderle certe e non soggette
all'arbitrio, diventano del tutto ineguali.» Ricerche
sopra
la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Lib.
quinto, capit. II, parte 2.a
art. IV.
[10] Scemando o venendo meno i
capitali, scema o vien meno la produzione.
[11] Il solo reddito netto
è propriamente reddito; del lordo una parte è mero
risarcimento di spese fatte.
[12] Quindi sono ingiuste
quelle tasse, che vengono principalmente a gravare sul minuto popolo e
sulla classe più misera della società.
[13] Questa regola si riferisce
segnatamente ai profitti, che provengono dai capitali, e massime dai
capitali circolanti.
[15] Si avrebbe anche il
vantaggio di rimuovere l'enorme ingiustizia, che si commette da
qualche Governo, di volere riscuotere l'imposta fondiaria, anche sulle
case che restano senz'affitto.
[16] Ricerche
sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni;
lib. V, cap. II, parte 2a.a,
a. 1.
[22] Giuseppe Garnier notando
come le gravezze indirette, a preferenza delle altre, sono mal
ripartite, dice: «Citiamo un esempio: Trenta franchi sopra una
botte di vino di trecento franchi non sono che il dieci per cento;
essi formano al contrario un dazio del cento per cento sul vino del
povero.» Elementi
dell'Economia politica, seconda parte, cap. XXII. Ciò
forse è esagerato; ma certo è che l'imposta sul consumo, a
rispetto del povero è più grave e progredisce in ragione
diretta della sua povertà.
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