LA NUOVA CULTURA DEL CLERO
La Civiltà Cattolica
anno 57°, vol. III (fasc. 1347, 24 luglio 1906), Roma 1906 pag. 257-273.
I.
«Dopo tanti secoli noi siamo ancora pregni di pensiero
babilonese e di vita romana». Con questa frase pittoresca ci
viene colorito, anzi ritratto in vivace rilievo, il lato storico e
critico delta cultura nuova, mostrandocene in lontananza e quasi in
iscorcio la vecchia origine: perchè «Babilonia inventando la
scienza astronomica, conquistò il tempo e creò la storia
umana: i Romani formando la scienza giuridica, resero possibile la
civiltà».
La frase pittoresca non è nostra: è del direttore degli Studi religiosi di Firenze, il
sac. Salvatore Minocchi; il quale appunto in un articolo del suo
periodico (marzo-aprile 1906) viene a spiegarci quale sia o debba
essere «la nuova cultura del clero», cultura
critico-storica, pratica, esperimentale. L'articolo e per l'indole
della nuova cultura che esalta, e per l'onore dell'antica che deprime,
e per le allusioni abbastanza trasparenti alle idee da noi più
volte e anche recentemente manifestate [1],
non poteva nè doveva passarci inosservato: esso ci costringe a
riprendere il nostro ingrato lavoro di recensione di metodi ed errori
vecchi, disseppelliti sotto i nostri occhi e vantati come progresso,
mentre essi volgono, secondo noi, a un manifesto regresso, a una
profonda e pericolosa confusione di termini e di concetti, anche
quando non vi fosse pervertimento, più o meno coperto, delle
dottrine cattoliche, di dogma e di fede. E noi temiamo appunto, per la
nuova cultura dei chierici, non quel pensiero babilonese e quella vita
romana, di cui si dicono pregni, ma la confusione famosa di Babele,
che non pure li impedisca dall'erigere un qualsiasi edifizio
dottrinale solido e consistente, ma li disperda qua e là raminghi
per le vie dell'errore.
Tale confusione, già notata in altri scritti recenti, la
troviamo di molto aggravata in questo articolo, benchè esso abbia
avuto l'onore di venir citato in qualche periodico razionalista di
Germania, e riassunto da qualche nostra rivista cattolica con una
benevolenza negata ad altri.
E la cosa è tanto più degna di nota, perche l'articolo
accennato ha sembianza di programma; di un programma così ampio,
comprensivo, categorico che additi al clero nuovo le vie di una nuova
cultura, gl'indirizzi sicuri delle rinnovate scienze religiose che
formeranno al cristianesimo un'apologia consentanea col pensiero
moderno; nè tuttavia rigetti 1'antica filosofia, così si
dice, di carattere perenne «che si trova come oro in ricchissimo
filone nei sistemi di Platone e di Aristotile.» Anzi, aggiunge il
Minocchi, in nota: «Insomma il nostro programma è in queste
parole di Leone XIII nell'Enciclica Aeterni
Patris: «Enixe hortamur ut... auream Sancti Thomae sapientiam
restituatis» con quel che segue; e infine egli loda
anche il neo-tomismo dell'Istituto filosofico della Università di
Lovanio, che altre volte il suo periodico non aveva troppo commendato.
Ma, purtroppo, questa conclusione potè, non del tutto a torto,
apparire ad uno scrittore della Rassegna
nazionale [2] «un
colpo abile ed accorto, ovvero ingenuo ed incoerente»; tanto
contrasta coi precedenti, dove «ci si propone una nuova filosofia
che è proprio agli antipodi della filosofia di Platone e di
Aristotele». E il linguaggio con cui ci si propone, è
trovato dalla Rassegna «in alcuni punti oscuro e vago, fluttuante
e contradittorio, indizio forse d'indeterminatezze del corrispondente
pensiero»; onde il rigido censore gli attenua o nega senz'altro
l'autorità filosofica che egli può avere, gli nega
attitudine alla metafisica, e perfino «attitudine sviluppata a
vedere la portata delle proprie affermazioni» che è davvero
troppo, e via via con altre censure fortissime in tutto il corso
dell'articolo.
Noi, non saremo così severi: non ci fermeremo neppure a notare
alcune rassomiglianze, e talora quasi identità di dottrina, che
potrebbe apparire con quella delle due opere recentemente condannate
dell'abbate Laberthonnière; aggingeremo anzi, che qui lo
scrittore ha cura e arte molta di addolcire le cose forti,
attenuandole, spiegandole, si direbbe quasi, ritrattandole, dopo
averle dette, con qualche bel giro di frase inaspettato, con qualche
nota, con qualche inciso, che ne tolga la crudezza e al tutto dia
l'aria della più schietta ortodossia, quale vuol essere certo
nell'intenzione dell'autore.
Ma tutto questo, che potrebbe anche sembrare a taluno solo artifizio
di stile, non è, ad ogni modo, correttivo bastevole, nè
toglie a chi legge quel senso d'inquietudine ed incertezza che
s'ingenera dalla confusione dei concetti: molto meno esime la nuova
cultura da ogni pericolo di errore. Questa confusione e questo
pericolo vorremmo veder allontanato dalla «nuova cultura del
clero» perchè essa riesca veramente, non in una corsa
insensata, come parla il critico sopra citato: ma, come è nel
desiderio di tutti quel che amano la verità, in un progresso
assennato e costante, che davvero conferisca alle future vittorie
della Chiesa.
II.
E anzitutto vorremmo vedere rimossa o chiarita nella «nuova
cultura del clero» una prima confusione o incertezza che traspare
nel suo programma, nell'atteggiamento rispetto alle persone e
all'opera dei nemici della fede, e al «nuovo cattolicismo»
da essi vagheggiato e predetto.
Questo atteggiamento, fino dall'esordio dell'articolo, non ci appare
netto, chiaro, risoluto: come sarebbe desiderabile per la chiarezza e
precisione d'un programma di nuova cultura. Con troppo onore il
Minocchi cita fra i «celebri scrittori che godono fama e fiducia
di vedere ben addentro nelle cause», il noto protestante
razionalista Paolo Sabatier, così ostile alla Chiesa; ne riporta
parecchie frasi e concetti dal libello famoso intorno alla separazione
[3], ove il Sabatier prenuncia
l'avvento del «nuovo cattolicismo, spontaneamente e
legittimamente disceso ed evoluto dall'antico»; e dopo belle
dichiarazioni di non voler fare il profeta, e che la Chiesa non
può perire e il cristianesimo preparasi a risorgere ecc., egli
conchiude alfine: «Noi non potremmo dire se e fino a qual punto
il nuovo cattolicismo
sarà rispettato ed amato da chi è privo d'ogni fede
religiosa; ma sappiamo e teniamo a dimostrare che quel nuovo
cattolicismo, il cattolicismo moderno, che è il nostro e nel
quale crediamo, non sarà diverso essenzialmente
dall'antico...»
Ora dall'opuscolo stesso del Sabatier citato sopra, come da mille
altri indizi, è troppo facile conoscere, quanto sia illusione
vana, ingenua sperare di conciliare gli avversari della fede mediante
il metodo delle concessioni e degli adattamenti, ovvero supporre anche
come possibile, nonchè probabile, che il promesso nuovo
cattolicismo possa essere rispettato ed amato da chi è privo
d'ogni fede religiosa, se non solamente e fino a quel punto che
andrà rinunziando al dogma cristiano o cattolico, per accostarsi
man mano agli scredenti, e al pii ridursi ad una religione vaga,
sentimentale, aerea, cioè tutta soggettiva o in perpetua
evoluzione, qual è quella del Sabatier, senza fardello di dogmi,
di leggi, di morale, di sanzione soprannaturali. Il nuovo cattolicismo
vagheggiato e promosso da quel celebre scrittore che ha fama e fiducia
di vedere bene addentro nelle cause..., è nientemeno che
«l'irreligione dell'avvenire» esaltata da Marco Guyau, al
quale doveva egli dedicare appunto il suo libello, come ci fa sapere
nella introduzione alla seconda edizione [4].
Questo nuovo cattolicismo non può, non deve dunque aver nulla di
commune con quello del Minocchi, e ciò (vogliam credere) intende
egli di significarci, allorchè soggiunge che sa e tiene a
dimostrare che quel cattolicismo, il cattolicismo moderno, non è
in nulla diverso essenzialmente dall'antico e «perciò sdegna
e ripudia ogni altro appellativo che non la la pura dignità di
cattolicismo». Belle parole, queste ultime, e bello soprattutto
lo sdegnoso ripudio: ma sarebbe, crediamo, più bello e più
rassicurante questo parlare, se, meglio connesso coi precedenti, ci
chiarisse interamente in che alfine stia la diversità non
essenziale che si suppone fra il cattolicismo antico e questo
nuovo o moderno, che si aspetta. Consisterebbe forse in qualche abuso
di devozione soppresso, in qualche tradizione popolare o leggenda
abbandonata, diciamo anche, in qualche interpretazione teologica su
questione npinahile rinnovata? Ovvero starebbe in ben altro? Altro
certamente pare che pretenda cotesto «profondo moto interno di
riforma e di rinnovamento» che il Sabatier annunzia e vuole
fomentare in seno alla Chiesa: sicchè talora sembra ridursi
il dogma o l'interpretazione del dogma a simbolismo, a mero
soggettivismo, a evoluzionismo e simili. Il chiarire bene questo punto
sarebbe certo non ignobile argomento, e avrebbe del nuovo, perchè
mentre tanti oggi ne parlano, nessuno si spiega chiaro: onde nasce
quella confusione, che deploriamo.
III.
Ma forse la diversità non
essenziale vorrà essere tutta nelle «rinnovate
scienze religiose»? Da queste fiorirà poi la nuova apologia
consentanea al pensiero moderno, e quindi il rinnovamento della fede e
della vita religiosa: perchè all'odierna decadenza della fede
è da temere, ci dice il Minocchi, che abbiano cooperato alcuni
apologisti vecchi, poveri di scienza storica e troppo conservatori.
Ma, anzitutto, queste rinnovate scienze, questi studi religiosi
moderni, pare che si vogliano tutti ristringere alla critica storica o
al metodo storico-critico: giacchè fra molte oscillazioni di
pensiero solo della «genesi»di questo si parla. E ciò
sarebbe errore gravissimo: sarebbe il ridurre tutta la cultura nuova
ad un solo ramo, anzi ad un metodo o all'applicazione di esso, che
è solo una via alla scienza; via buona, non unica.
E diciamo via buona, se bene usata: giacchè qui, più che
mai, è necessario, ciò che d'ordinario non si fa, dichiarare
il retto uso del metodo che si esalta e sceverarlo dall'abuso che non
è più nè critico nè storico, benchè ne usurpi
il nome. Del primo, cioè della vera critica, si potevano ripetere
le sapienti parole del regnante Pontefice, Pio X, nella sua Enciclica
Iucunda sane del 15 marzo
1904: «Ipsa per se (critices
disciplina) culpa vacat,
legitimeque adhibita conducit ad investigandum felicissime».
[«Essa (la
scienza critica) è per
sè innocente ed elemento sicuro di ricerca, quando sia
rettamente applicata.» N.d.R.]
Il che da tutti certamente si deve ammettere, nè ha bisogno di
lunga ed erudita dimostrazione. L'abuso invece si deve riconoscere,
purtroppo, che è trascorso e può trascorrere, anche presso
cattolici, a qualche errore; ed è noto il caso, oramai non
più unico, in cui tale abuso fu causa non solo d'infiltrazione,
ma di una più o meno coperta professione di razionalismo o di
protestantismo. Ciò perchè si sprezzò la logica, e per
far opera di critica si calpestò la critica, che della logica
è parte.
Questo pericolo potrebbe sorgere dalla confusione che ingenerano le
tante lodi enfatiche di «una critica storica applicata alla
scienza religiosa in modo scevro d'ogni preconcetto filosofico» e
di una «scienza moderna» che viene pure ad essere tutta
identificata con «la critica sperimentale sostituita alla
semplice riflessione attraverso un qualsiasi specchio logico» e
simili. Sicchè, oltre a tante altre cose che si potrebbero qui
notare, sembra quasi che si riguardi la questione religiosa, con tanti
problemi che le si attengono, come questione solo di fatti contingenti
e sperimentali: e di più nello studio di questi fatti, come nello
studio critico della storia, anzi pure della scienza religiosa, si
voglia escluso ogni elemento razionale o filosofico, ogni uso di
logica. per considerarvi solo, a così dire, il fenomeno greggio
del fatto. Così verrebbe distrutta a un colpo, nonchè ogni
filosofia della storia, la consistenza e la ragione e l'uso medesimo
della critica che si esalta, togliendo o indebolendo il fondamento
necessario alla discussione, all'esame, all'intelligenza dei fatti e
delle testimonianze: onde si schiuderebbe la via allo scetticismo
anche nella critica e nella storia.
Chi non sa, infatti, quante questioni, conclusioni, principii
strettamente filosofici, anzi propriissimi della logica, si
presuppongono alla retta intelligenza e applicazione dello stesso
metodo storico e critico, specialmente quando si voglia applicato
questo metodo alla scienza religiosa, al dogma? Il critico e lo
storico può a buon diritto, e deve anzi assumere come lemmi e
postulati le conclusioni dimostrate dalla scienza, superiore, che
è la filosofia; nè può a niun conto ripudiarle come
preconcetti filosofici.
Chiunque perciò presumesse che la critica, per quanto
sperimentale, dovesse rinunziare ai principii della filosofia, alle
leggi del raziocinio dialettico, alla semplice riflessione logica,
rinunzierebbe a discernere anche quando la testimonianza altrui sia
norma utile e necessaria a giudicare, e quando no; quando meriti fede
così piena da escludere ogni dubbio prudente, e quando non la
meriti punto, o la meriti così da lasciar adito al dubbio:
insomma rinunzierebbe, abbandonando la riflessione richiesta dall'uso
della logica, a tutte le regole della critica, che ne sono il frutto,
alla loro pratica applicazione; rinunzierebbe, ripetiamo, a se stessa,
e riuscirebbe infine ad uno sfiduciato agnosticismo.
Lo scrittore fiorentino non può ignorare che a questa sfiducia
scettica degli stessi metodi critici, si sono oggi abbandonate molte
nobili intelligenze che, traviate dalla smania stessa della critica e
nell'ordine delle idee e dei fatti, avevano voluto far getto delle
prove razionali, o almeno trasandarle, come superate omai, essi
dicevano dal pensiero contemporaneo; laddove noi ci ostiniamo di
crederle fraintese, o ignorate.
IV.
E in questa credenza ci confermiamo anche rileggendo parecchie nuove
asserzioni, che hanno tutto il sapore del paradosso in questo
programma di «nuova coltura del clero». Ma particolarmente,
per restringerci alla prima parte che ci si offre come genesi
degli studi religiosi moderni, ci fanno stupore le accuse che
il Minocchi rivolge, come già il Laberthonnière ed altri
suoi segnaci, contro la filosofia greca, e in ispecie contro quella di
Platone e di Aristotile. Questa è posta fra le cause precipue che
impedirono il progresso della scienza, cioè del metodo
storico-critico fra Greci e Romani, e di poi nello stesso
cristianesimo.
Questa è accusata di funesto dualismo ammesso nella natura
dell'uomo «quasi fosse esso composto per giustaposizione di
materia formata (?) e di spirito intellettivo»: questa si dice
che veniva di necessità a rompere la nostra unità di vita
senziente e pensante; anzi a rendere ogni vera scienza impossibile.
Capi di accusa cotesti, come altri somiglianti, di una gravità
enorme: ma peggio ancora sarebbe l'accusare la filosofia degli
ostacoli frappostisi alla scienza del cristianesimo fra i Romani, e
quasi anche delle persecuzioni mosse al cristianesimo stesso,
particolarmente da Giuliano. Chi sa? Col metodo storico-critico della
nuova cultura questo imperatore non sarebbe divenuto l'apostata? e le
persecuzioni si sarebbero risparmiate? Ma, via, lasciamo andare le
ipotesi! Omai è troppo nota, massime col moderno progresso di
studi storici, la parte che ebbe la filosofia pagana nelle
persecuzioni.
Di poi, «cessò per la scienza l'impedimento assoluto della
vecchia metafisica»: ma si attraversarono altre cause, cioè,
oltre all'invasione e al regno anarchico dei barbari, la scienza o
l'idea del monachismo e la dottrina scolastica.
Queste due, se valgono le premesse del Minocchi, parrebbero appunto
meritevoli di essere poste tra le «cause d'intorpidimento e di
ristagno della scienza», quando la scienza s'identifichi con il
metodo storico critico, sperimentale. Quindi le grandi benemerenze del
clero e del monachismo quasi in ogni parte dello scibile, non mai
interrotte del tutto, neppure fra le inondazioni dei barbari e fra le
tenebre del medio evo, quand'essi erano soli a conservarci i tesori
della sapienza antica, sarebbero da rilegarsi tra le leggende, o se
non tanto, da attenuarsi in gran maniera: giacchè il Minocchi
recisamente afferma, che non meno dei barbari dominanti «erano
indifferenti o nemici dell'antica civiltà gl'intellettuali fra i
vinti, che in nome dell'idea cristiana e particolarmente monastica,
trascuravano ogni altro pensiero che non fosse di salvare la vita del
corpo quaggiù e l'anima nell'altro mondo». Forse, ciò
scrivendo, egli pensava ai nomi di quegli intellettuali che furono un
Boezio, un Cassiodoro, un Gregorio Magno, un Benedetto e simili con la
schiera numerosa dei loro discepoli?
Quindi, aggiunge egli, la scienza del monachismo non fu nè
sperimentale, nè critica, una si mantenne per metodo metafisica e
mistica. Il qual fatto doloroso è però generosamente scusato
da lui; perchè, egli dice, «era irresistibile, che la
metafisica sostituisse tutta la realtà delle cose, o che al
misticismo si chiedesse di affermare verità di cui appariva
imperfetta la dimostrazione scientifica». Ma in questa scusa
generosa ci pare che scivoli con arte una definizione confusa affatto
nuova, dell'uffizio proprio della metafisica non meno che della
mistica: definizione che sembra contrapporre l'una e l'altra alla
realtà, alla verità, alla scienza, riducendole a un mero
soggettivismo, o com'egli parla «a contemplare l'universo, oltre
la visibile sussistenza, nello specchio interiore del pensiero»;
sicchè l'una balza di seggio tutta
la realtà; e l'altra si arroga di affermare ciò che
non è dimostrato.
Più incerte anche e più confuse ci appaiono altre così
fatte asserzioni o piuttosto insinuazioni, gettate là dallo
scrittore, come per incidente, in qualche membretto o inciso di quelle
sue molto complesse proposizioni. Così «la metafisica
medioevale, tralasciata o negletta l'esperienza, riposavasi in
un'astratta costruzione dell'universo, compiuta per via d'induzioni
sillogistiche nell'interno del pensiero»; e subito appresso
è designata come «un'arbitraria proiezione della logica
aristotelica nella realtà delle cose, alle quali talvolta
sostituivasi invece di rappresentarle».
Più sotto ci è lodata la vita e la natura, quale appariva
agli umanisti ben «diversa da quella già sognata e definita
con l'induzione logica»: si deplora l'intelligenza medioevale
chiusa nei limiti del monachismo: si accusa di nuovo la logica
aristotelica cresciuta nel monachismo, «di aver usato o abusato
del sillogismo aristotelico per fare di tutto lo scibile una
teologia» onde sarebbe stata proprio questa logica la causa che
l'avversione alla metafisica divenisse avversione alla teologia, alla
fede, al cristianesimo.
VI.
Ma sopra tutto contro il sillogismo drizza i suoi colpi il Minocchi,
a nome della nuova cultura del clero: sicchè, purtroppo, si ebbe
le più acerbe censure perfino dal suddetto scrittore della Rassegna Nazionale, il quale ci
dice di sè: «Chi scrive questa critica è un laico, non
ha studiato sotto maestri entusiasti della scolastica, non ha molta
simpatia per la filosofia tomistica... eppure non può denigrare
così il sillogismo come fa il professor Minocchi... Per il
Minocchi il sillogismo diventa sinonimo di errore». Le parole
sono gravi, ma non ingiuste per chi legga e intenda quanti aggravi si
facciano dal Minocchi al sillogismo in poche righe [5]: il sillogismo diviene errore nella storia:
errore nella vita e nell'arte: errore nella scienza e nel diritto.
Odasi infatti com'egli ne parla: «Gli umanisti avevano tutti chi
più chi meno intaccato il sillogismo nella storia: Leonardo e
Michelangelo nella vita e nell'arte: Colombo in pochi mesi di
navigazione aveva sfatato il sillogismo della formazione del globo...
Galileo negava il sillogismo astronomico, più presuntuoso di
tutti».
Non si può negare la peregrinità di questa scoperta del
nuovo metodo storico critico! Ed essa apre la via ad altre non meno
saporose... Dove sarà mai intaccato il sillogismo, nella Cena
di Leonardo o nella cappella Sistina o nelle altre immortali
opere di Michelangelo? Dove annegatosi attraverso all'Atlantico, nei
pochi mesi di navigazione del grande ligure ardito? Dove soprattutto
quel presuntuoso del sillogismo astronomico si trovò umiliato da
Galileo?... Saranno scoperte curiose della «nuova cultura»:
cose proprio da far onore al clero.
Nè basta ancora. Il sillogismo storico tollerava o sosteneva
pregiudizi; il sillogismo giuridico coonestava gli abusi, talvolta,
del potere ecclesiastico: e pregiudizi abusi «ebbero una reazione
che si manifestò nella irreligione e nella immoralità degli
umanisti, dei filosofi e degli artisti, nelle lotte degli Stati contro
la Chiesa, nelle ribellioni popolari contro il cattolicismo, e (meno male!) nella riforma
cattolica del Concilio di Trento». Tutto questo po' di roba, e se
Dio vuole, anche il protestantesimo, andrebbe così a carico del
sillogismo! E se fioriva «la nuova cultura» col suo metodo
storico-critico. queste rovine si risparmiavano? Bisogna convenirne.
Ma il Minocchi deplora che «anche ai tempi nostri per rimaner
fedele al sillogismo tradizionale la nostra scienza cadde nel
ridicolo, e ne reca per esempio il Dictionnaire
de la Bible del Vigouroux; e durante quasi intero il secolo
XIX gli apologisti cattolici hanno
sconfessato la critica, e ne dà per prova la testimonianza dell'Houtin, in una sua opera condannata! [6]»
sconfessato la critica, e ne dà per prova la testimonianza dell'Houtin, in una sua opera condannata! [6]»
Chi così ragiona ci pare quasi che abbia i suoi motivi di
screditare il sillogismo, nè possa davvero contentarsi di quei
tre magri termini che il sillogismo comporta, e, molto meno, della
intolleranza della vecchia logica a non volerne patire di più. E,
ammessa la verità relativa e
mutabile, che è un altro comodo ritrovato della nuova
filosofia, non avrà davvero questa verun bisogno di stare al
rigore dell'argomentazione sillogistica, nè di ridurre ad essa,
come usava la vecchia logica, ogni altra forma di dimostrazione, e
perfino quella dell'induzione, che si vorrebbe sola superstite allo
sfacelo della logica, per farne lo strumento del metodo
storico-critico. Così, spaziando liberamente fuori delle pastoie
sillogistiche, fuori d'ogni impedimento di vecchia metafisica, la
nostra scienza, pregna di pensiero babilonese e di vita romana, non
cadrà nel ridicolo!.....
VI.
Finora il sillogismo null'altro era stato che l'espressione più
semplice e più nitida dell'interno discorso della mente umana;
nè per sè conduceva in modo alcuno all'errore, se non quando
era viziato nella forma o malamente frainteso o poggiato su principii
erronei. Ma quando noi supponessimo che la mente umana ha errato
tanto, e necessariamente, nell'uso di questa forma più semplice
del suo discorso; quanto più si dovrà temere che debba
errare nell'applicazione di criterii così complessi e talvolta
così delicati del metodo storico-critico; che erri l'acume del
critico nell'esaminare e vagliare i fatti, la memoria dello storico
nel ricordarli e consegnarli ai posteri, l'occhio del testimone
oculare, l'orecchio del testimone auricolare, la mano dello scrittore
o copista o tipografo, che ce li ha tramandati, e non meno la perizia
dell'interprete nello scoprire e correggere gli errori di amanuensi,
gli scolii di annotatori. le aggiunte di interpolatori e via via,
massime se in tutto questo lavorio lo studioso si deve interdire l'uso
del sillogismo cioè del processo logico più naturale.
È vero che con lo screditare tanto la metafisica, la logica e
fin il valore del sillogismo, il Minocchi non deve intendere di
mettere in fascio ogni prova razionale, ogni forma d'argomentazione
speculativa; ma egli avrebbe dovuto evitarne perfino l'apparenza, per
non sembrare di voler porre la nuova cultura del clero in una antitesi
diretta, in una opposizione di sistema, rimpetto al metodo razionale
del quale sarebbe del tutto falso credere che presumesse conchiudere
ogni cosa a priori, senza
riguardo all'esperienza, ovvero pretendesse «armonizzare il
sillogismo con un fatto che serve a smentirlo». Se questo
potè essere errore o abuso di alcuni, non fu del sistema
dottrinale né di Aristotele, nè di S. Tommaso e neppure egli
scolastici principali che lo seguirono. La nuova cultura dunque
farebbe opera poco storica e poco critica supponendo, senza provare,
così forti affermazioni, prendendo un così dubbio
atteggiamento, com'è quello di entrare a combattere il fondamento
intellettuale della scienza stessa sperimentale.
VII.
Ma abbattuto questo fondamento con 1'esclusione del sillogismo e
della metafisica — a quel modo che già altri rappresentanti
della nuova coltura proclamano fin l'epicedio
delle scienze esatte, e simili indirizzi di agnosticismo scientifico,
non ignoti certamente all'erudito scrittore — quale sostegno
resta al metodo storico-critico, alla critica sperimentale, cioè
alla stessa scienza moderna che in lei s'incentra?
Resterà sempre un sostegno, si dirà, un supremo rifugio
nella coscienza interiore:
«Sulla infrangibile rupe della coscienza interiore edificava S.
Agostino il sapere religioso e morale, sulla coscienza fondava S.
Girolamo i principii della critica storica applicata alla Bibbia: noi
possiamo dirci ancora loro discepoli e ammirare la loro perpetua
modernità [7]... Il pensiero
cartesiano ristaurò nella sua integrità originale il
principio della scienza... ricollocandolo in quel santuario della
coscienza interiore dove ha le sue radici e fiorisce il principio
cristiano... L'idea cartesiana del sapere era quella che prima
succedeva, con una parentesi di dodici secoli, al pensiero di S.
Agostino [8]» —
fondato, come s'è detto, nella coscienza interiore. Con questo
s'insinua, pare a noi, l'idea, già sostenuta negli stessi Studi religiosi, come
giustissima in sè, da un altro amico della nuova cultura
«che nulla può penetrare nell'uomo se non scaturisce da
lui... che non v'è per lui verità fissa e precetto
ammissibile, nè come fatto
storico, nè come insegnamento tradizionale, nè come
obligazione esterna, che non sia, in qualche modo, autonomo
ed autoctono» [9].
Si sostiene cioè e si vuole applicato al metodo storico-critico
il principio fondamentale del così detto metodo dell'immanenza:
di cui non v'è il più contrario all'obbiettività
della storia e della critica, almeno preso come suona:
giacchè supporrebbe alfine che il fatto storico sia un prodotto
esso pure della coscienza interiore, nè consti a noi se non come
forma soggettiva del proprio io,
secondo le note dottrine essenzialmente kantiane. Ammesse le quali,
sarebbe poi bene strano se vi fosse chi si accalori contro l'idealismo
greco di Aristotele e della scolastica, fonte di tutti gli
errori! Più strano ancora se si credesse di far trionfare con
ciò il principio cristiano e di salvarsi dallo scetticismo.
ricorrendo al dettame della coscienza interiore per il fondamento
della critica storica e biblica, dopo aver tanto depresso ogni
processo logico della ragione. Stranissimo poi, il volere che questa
confusione di dottrina sia suffragata dall'autorità di S.
Agostino e di S. Girolamo: dei quali, ci dice il Minocchi, «con
profondo sentimento di verità noi possiamo dirci ancora
discepoli, e provare la gioia e l'ammirazione per la loro perpetua
modernità»: tanto più che per così gran tempo
«quei grandi iniziatori non ebbero degni seguaci...» —
cioè fino a che non fu chiusa la parentesi di dodici secoli
addirittura, fino a Renato Descartes.
VIII.
Avrebbe troppo buon giuoco chi volesse raccogliere e mettere
sott'occhio ai nuovi denigratori della logica le testimonianze dei due
Padri latini, rinnovando a chi legge «la gioia e l'ammirazione
per la loro perpetua modernità». Basterebbe leggere con
quanta modernità dipinge S. Girolamo nella sua epistola a
Domnione, quel cotale chierichetto o monacello «circumforaneum,
rumigerulum, rabulam, vafrum tantum ad detrahendum» [«ciurmadore,
cicalone, acuto solamente nel biasimare» N.d.R.]
che si spassava per le vie di Roma, absque
praeceptore perfectus [«fattosi perfetto senza
precettore» N.d.R.],
πνευματοφόρος
καὶ
αὐτοδίδακτος
[«ripieno di spirito divino e autodidatta» N.d.R.].
E il fiero dalmata si querela col romano: «hunc
dialecticum urbis vestrae ... non legisse quidem
κατηγορίας
Aristotelis, non περὶ
ἑρμηνείας ... non
saltem Ciceronis τόπους, sed per
imperitorum circulos muliercularumque
συμπόσια, syllogismos
ἀσυλλογίστους
texere.» [E che questo dialettico della
città vostra ... non avendo pur letto le Categorie
di Aristotele, non il Trattato
sull'interpretazione ... non almeno i Topica
di Cicerone, se ne va per i circoli degl'ignoranti e tra i
banchetti delle donnette, tessendo sillogismi assurdi (ἀσυλλογίστους).
N.d.R.] Stolto sono io,
conchiude il santo, che ho creduto di non poter sapere queste cose
senza i filosofi ... «Frustra
ergo Alexandri verti commentarios; nequidquam me doctus magister per
εἰσαγωγήν Porphyrii
introduxit ad logicam ... » [10].
[«Invano dunque ho tradotto i commenti d'Alessandro (Alessandro di Afrodisia,
commentatore di Aristotele del II-III secolo d. C.); invano
il dotto maestro m'introdusse alla logica per mezzo dell'Isagoge
di Porfirio...» N.d.R.]
Nè meno pungente egli scrive contro Rufino, per il suo sprezzo
contro la logica [11]: e
più pacato ma non meno istruttivo torna a parlare della filosofia
e della dialettica in più altri luoghi, e vi accenna anche nella
sua lettera a Paolino sullo studio delle Scritture: «ut
intelligeres, egli dice, te in Scripturis sanctis sine praevio et
monstrante semitam non posse ingredi» [12].
[«... affinchè tu comprenda che non puoi entrare
nella via delle Scritture sante senza guida e senza chi te la
mostri. N.d.R.] Con che il
santo mostra insieme com'egli non fondava per certo la sua critica
biblica sulla coscienza interiore, la quale potrebbe anche confondersi
con verto spirito privato protestantico, e con quella esperienza
religiosa, cara ai pietisti e ad alcuni noti mistici moderni.
Con S. Girolamo si accorda S. Agostino in molti passi, come ad es.,
nel libro II De Doctrina
Christiana, dove espressamente sostiene l'utilità somma
del metodo dialettico a penetrare e disciogliere ogni genere di
questioni che s'incontrano negli studii sacri, nelle scritture sante,
solo avvertendo che la dialettica non dev'essere litigiosa:
perchè molte volte occorrono sofismi e false conclusioni di
ragionamenti, che per lo più imitano le vere conclusioni
così da presso da trarre nell'inganno non solo uomini tardi, ma
anche ingegnosi, quando siano meno desti nell'attenzione [13]. E più energicamente contro Cresconio
donatista, che appunto gli aveva rinfacciato l'uso della dialettica
«quasi christianae non congruat veritati», [«come
se non fosse adeguata alla verità cristiana» N.d.R.]
mostrava il santo Dottore l'esempio degli Apostoli e di Cristo stesso,
il quale «exemplum nobis tale proposuit, ut eos potius etiam
veritatis inimicos vigilanti interpretatione et invicta ratione
testimonium veritati perhibere cogamus». [«ci diede
un siffatto esempio, che cioè noi piuttosto, attraverso
un'attenta esposizione e una ragione inconfutabile, pieghiamo anche
i nemici della verità a dare testimonianza alla
verità.» N.d.R.] E
così lo stringeva, come noi non oseremmo stringere i nostri
contradittori: «Sed tu videlicet non dialectica uteris cum contra
nos scribis?... Si noxia sunt, quare hoc facis? Si non sunt, cur
arguis?» [«Ma tu non usi forse la dialettica
scrivendo contro di noi? ... Se esse (l'eloquenza
e la dialettica) sono dannose, perchè le usi? Se non
lo sono, perchè le attacchi?» N.d.R.]
E affermava senz'altro: «Neque enim, cum hoc mihi obiicis,
imperitia te falli puto, sed fallere astutia», [«Infatti,
biasimandomi per questo (per
l'uso della dialettica), ritengo che tu non ti inganni per
ignoranza, ma vuoi ingannare con astuzia.» N.d.R.]
parendogli troppo evidente la verità: «Hanc enim
artem quam dialecticam vocant... numquam doctrina christiana
formidat» [14]. [«Quest'arte
dunque che è detta dialettica ... non è temuta in alcun
modo dalla dottrina cristiana» Si tenga presente che per
sant'Agostino la dialettica è la scienza del disputare per
discernere il vero dal falso (disputatio dialectica ... qui enim
disputat, verum quid sit disputando discernit a falso, ib.),
cioè il retto uso della ragione ovvero la logica nel suo
significato più alto, e l'eloquenza le è solo di ausilio (Hoc
ille verus disputator si late diffuseque faciat, eloquenter facit,
alioque tunc censetur augeturque vocabulo, ut dictor potius quam
disputator vocetur. Ib.) N.d.R.]
Con ciò, crediamo bastevolmente dimostrata la confusione portata
nel linguaggio e nelle dottrine da coloro che appellando a torto
all'autorità dei Padri, onde si dicono «discepoli»,
screditano, a nome del progresso e della nuova cultura, i metodi
più sicuri e le conquiste più certe della scienza teologica
accreditata nella tradizione della Chiesa e nei Concilii. Non
sarà questa la scuola donde si possa sperare una nuova apologia
del cristianesimo.
NOTE:
[1] Vedi in particolare quad.
1335 (3 febbr. 1906) p. 257 ss.; quad. 1337 (3 marzo) p. 559 ss.
[2] Carlo
Caviglione, Che è la
nuova cultura del clero? in Rassegna
naz. (16 maggio 1906). Non ci accordiamo pero col severe
critico in tutto, molto meno nelle censure rivolte ai neo-scolastici,
come il Mercier!
[3] Di questo opuscolo il
Minocchi aveva già fatto nel fascicolo precedente (genn. febbr.
1906. p. 943) la recensione, conchiudendo: «La speranza e
l'augurio di Paolo Sabatier è evidentemente rivolto al movimento
nostro, e noi non possiamo non sentirci lusingati, per amore della
Chiesa, delle forze vitali che si suppone noi saremo per rinnovare nel
pensiero cattolico. Ma in tal caso ci occorre di ben mettere in chiaro
che noi col pensiero nostro non vogliaino minimamente porci in
contrasto con le supreme Autorità della Chiesa». Ottima
quest'ultiina conclusione, ma bisogna pure avvertire di non porsi in
contrasto con le direzioni e l'indirizzo autoritativo del magistero
non solo straordinario, ma anche ordinario della Chiesa, nè
ricercare nuove dichiarazioni dove già parlano con bastevole
chiarezza le precedenti. Che cosa valgono le più umili, le
più fervide protestazioni, se ad esempio, dopo
il ragguaglio di una udienza pontificia, segue tosto un programma di filosofia contraria a tutte le direzioni pontificie? Cf. Studi religiosi, fasc. III. anno V (maggio-giugno 1905).
il ragguaglio di una udienza pontificia, segue tosto un programma di filosofia contraria a tutte le direzioni pontificie? Cf. Studi religiosi, fasc. III. anno V (maggio-giugno 1905).
[4] In questa il Sabatier,
l'«apostolo ardente delle tendenze religiose più larghe e
comprensive» come lo chiamava la defunta Cultura
sociale (16 gennaio 1906), mostra abbastanza chiaramente le
sue intenzioni finali di riforma
cristiana, ma non così forse da disingannare quei
«chierici nuovi» che gli corrispondono e hanno da lui in
ricambio il poco invidiabile onore delle sue lodi. Noi godiamo invece
di essere tra quelli ch'egli onora delle sue invettive, le quali
giungono spesso, in questa seconda edizione, fino alla puerilità
rabbiosa, al parossismo della passione. Così, ad esempio,
ingiuria i cattolici con questi bei titoli «de gamins, de frelons
et d'aventuriers» e con simile linguaggio. E scrittori così
fatti si danno aria di critici sereni! Godono fama e fiducia di veder
ben addentro... e sono stimati apostoli ardenti ecc.!
[5] Vedi. p. e. a pag. 155.
[6] Ivi. p. 161, testo e note.
[7] Ivi. p. 148.
[8] Ivi. p. 153 s.
[11] «Quoniam stoici
logicam sibi vindicant et tu huius scientiae deliramenta contemnis, in
hac parte epicureus es; nec quaeris quomodo, sed quid loquaris. Quid
ad te pertinet, si alius non intelligat quid velis dicere, quia non ad
omnes, sed ad tuos loqueris? Denique et ego scripta tua relegens,
quamquam interdum non intelligam quid loquaris... tamen non doleo, nec
me poenitet tarditatis: id enim in legendo patior quod tu pateris in
scribendo.» Adv. Rufin.
I, 30. ap. Migne,
XXIII. 423. — Di quanti sprezzatori della filosofia tradizionale
e del sillogismo si potrebbe forse dire qualche cosa di somigliante, e
forse con più ragione che di Rufino.
[13] August.
De doctrina Christiana l.
II, c. 31. ap. Migne,
XXXIV, 58: «Disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum
quae in litteris sanctis sunt penetranda et dissolvenda, plurimum
valet: tantum ibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam
ostentatio decipiendi adversarium. Sunt enim multa quae appellantur
sophismata, falsae conclusiones rationum et plerumque ita veras
imitantes ut non solum tardos, sed ingeniosiores etiam minus
diligenter attentos decipiant...».
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