mercoledì 28 settembre 2016

LA NUOVA CULTURA DEL CLERO

La Civiltà Cattolica

anno 57°, vol. III (fasc. 1347, 24 luglio 1906), Roma 1906 pag. 257-273.

I.

«Dopo tanti secoli noi siamo ancora pregni di pensiero babilonese e di vita romana». Con questa frase pittoresca ci viene colorito, anzi ritratto in vivace rilievo, il lato storico e critico delta cultura nuova, mostrandocene in lontananza e quasi in iscorcio la vecchia origine: perchè «Babilonia inventando la scienza astronomica, conquistò il tempo e creò la storia umana: i Romani formando la scienza giuridica, resero possibile la civiltà».
La frase pittoresca non è nostra: è del direttore degli Studi religiosi di Firenze, il sac. Salvatore Minocchi; il quale appunto in un articolo del suo periodico (marzo-aprile 1906) viene a spiegarci quale sia o debba essere «la nuova cultura del clero», cultura critico-storica, pratica, esperimentale. L'articolo e per l'indole della nuova cultura che esalta, e per l'onore dell'antica che deprime, e per le allusioni abbastanza trasparenti alle idee da noi più volte e anche recentemente manifestate [1], non poteva nè doveva passarci inosservato: esso ci costringe a riprendere il nostro ingrato lavoro di recensione di metodi ed errori vecchi, disseppelliti sotto i nostri occhi e vantati come progresso, mentre essi volgono, secondo noi, a un manifesto regresso, a una profonda e pericolosa confusione di termini e di concetti, anche quando non vi fosse pervertimento, più o meno coperto, delle dottrine cattoliche, di dogma e di fede. E noi temiamo appunto, per la nuova cultura dei chierici, non quel pensiero babilonese e quella vita romana, di cui si dicono pregni, ma la confusione famosa di Babele, che non pure li impedisca dall'erigere un qualsiasi edifizio dottrinale solido e consistente, ma li disperda qua e là raminghi per le vie dell'errore.
Tale confusione, già notata in altri scritti recenti, la troviamo di molto aggravata in questo articolo, benchè esso abbia avuto l'onore di venir citato in qualche periodico razionalista di Germania, e riassunto da qualche nostra rivista cattolica con una benevolenza negata ad altri.
E la cosa è tanto più degna di nota, perche l'articolo accennato ha sembianza di programma; di un programma così ampio, comprensivo, categorico che additi al clero nuovo le vie di una nuova cultura, gl'indirizzi sicuri delle rinnovate scienze religiose che formeranno al cristianesimo un'apologia consentanea col pensiero moderno; nè tuttavia rigetti 1'antica filosofia, così si dice, di carattere perenne «che si trova come oro in ricchissimo filone nei sistemi di Platone e di Aristotile.» Anzi, aggiunge il Minocchi, in nota: «Insomma il nostro programma è in queste parole di Leone XIII nell'Enciclica Aeterni Patris: «Enixe hortamur ut... auream Sancti Thomae sapientiam restituatis» con quel che segue; e infine egli loda anche il neo-tomismo dell'Istituto filosofico della Università di Lovanio, che altre volte il suo periodico non aveva troppo commendato.
Ma, purtroppo, questa conclusione potè, non del tutto a torto, apparire ad uno scrittore della Rassegna nazionale [2] «un colpo abile ed accorto, ovvero ingenuo ed incoerente»; tanto contrasta coi precedenti, dove «ci si propone una nuova filosofia che è proprio agli antipodi della filosofia di Platone e di Aristotele». E il linguaggio con cui ci si propone, è trovato dalla Rassegna «in alcuni punti oscuro e vago, fluttuante e contradittorio, indizio forse d'indeterminatezze del corrispondente pensiero»; onde il rigido censore gli attenua o nega senz'altro l'autorità filosofica che egli può avere, gli nega attitudine alla metafisica, e perfino «attitudine sviluppata a vedere la portata delle proprie affermazioni» che è davvero troppo, e via via con altre censure fortissime in tutto il corso dell'articolo.
Noi, non saremo così severi: non ci fermeremo neppure a notare alcune rassomiglianze, e talora quasi identità di dottrina, che potrebbe apparire con quella delle due opere recentemente condannate dell'abbate Laberthonnière; aggingeremo anzi, che qui lo scrittore ha cura e arte molta di addolcire le cose forti, attenuandole, spiegandole, si direbbe quasi, ritrattandole, dopo averle dette, con qualche bel giro di frase inaspettato, con qualche nota, con qualche inciso, che ne tolga la crudezza e al tutto dia l'aria della più schietta ortodossia, quale vuol essere certo nell'intenzione dell'autore.
Ma tutto questo, che potrebbe anche sembrare a taluno solo artifizio di stile, non è, ad ogni modo, correttivo bastevole, nè toglie a chi legge quel senso d'inquietudine ed incertezza che s'ingenera dalla confusione dei concetti: molto meno esime la nuova cultura da ogni pericolo di errore. Questa confusione e questo pericolo vorremmo veder allontanato dalla «nuova cultura del clero» perchè essa riesca veramente, non in una corsa insensata, come parla il critico sopra citato: ma, come è nel desiderio di tutti quel che amano la verità, in un progresso assennato e costante, che davvero conferisca alle future vittorie della Chiesa.

II.

E anzitutto vorremmo vedere rimossa o chiarita nella «nuova cultura del clero» una prima confusione o incertezza che traspare nel suo programma, nell'atteggiamento rispetto alle persone e all'opera dei nemici della fede, e al «nuovo cattolicismo» da essi vagheggiato e predetto.
Questo atteggiamento, fino dall'esordio dell'articolo, non ci appare netto, chiaro, risoluto: come sarebbe desiderabile per la chiarezza e precisione d'un programma di nuova cultura. Con troppo onore il Minocchi cita fra i «celebri scrittori che godono fama e fiducia di vedere ben addentro nelle cause», il noto protestante razionalista Paolo Sabatier, così ostile alla Chiesa; ne riporta parecchie frasi e concetti dal libello famoso intorno alla separazione [3], ove il Sabatier prenuncia l'avvento del «nuovo cattolicismo, spontaneamente e legittimamente disceso ed evoluto dall'antico»; e dopo belle dichiarazioni di non voler fare il profeta, e che la Chiesa non può perire e il cristianesimo preparasi a risorgere ecc., egli conchiude alfine: «Noi non potremmo dire se e fino a qual punto il nuovo cattolicismo sarà rispettato ed amato da chi è privo d'ogni fede religiosa; ma sappiamo e teniamo a dimostrare che quel nuovo cattolicismo, il cattolicismo moderno, che è il nostro e nel quale crediamo, non sarà diverso essenzialmente dall'antico...»
Ora dall'opuscolo stesso del Sabatier citato sopra, come da mille altri indizi, è troppo facile conoscere, quanto sia illusione vana, ingenua sperare di conciliare gli avversari della fede mediante il metodo delle concessioni e degli adattamenti, ovvero supporre anche come possibile, nonchè probabile, che il promesso nuovo cattolicismo possa essere rispettato ed amato da chi è privo d'ogni fede religiosa, se non solamente e fino a quel punto che andrà rinunziando al dogma cristiano o cattolico, per accostarsi man mano agli scredenti, e al pii ridursi ad una religione vaga, sentimentale, aerea, cioè tutta soggettiva o in perpetua evoluzione, qual è quella del Sabatier, senza fardello di dogmi, di leggi, di morale, di sanzione soprannaturali. Il nuovo cattolicismo vagheggiato e promosso da quel celebre scrittore che ha fama e fiducia di vedere bene addentro nelle cause..., è nientemeno che «l'irreligione dell'avvenire» esaltata da Marco Guyau, al quale doveva egli dedicare appunto il suo libello, come ci fa sapere nella introduzione alla seconda edizione [4].
Questo nuovo cattolicismo non può, non deve dunque aver nulla di commune con quello del Minocchi, e ciò (vogliam credere) intende egli di significarci, allorchè soggiunge che sa e tiene a dimostrare che quel cattolicismo, il cattolicismo moderno, non è in nulla diverso essenzialmente dall'antico e «perciò sdegna e ripudia ogni altro appellativo che non la la pura dignità di cattolicismo». Belle parole, queste ultime, e bello soprattutto lo sdegnoso ripudio: ma sarebbe, crediamo, più bello e più rassicurante questo parlare, se, meglio connesso coi precedenti, ci chiarisse interamente in che alfine stia la diversità non essenziale che si suppone fra il cattolicismo antico e questo nuovo o moderno, che si aspetta. Consisterebbe forse in qualche abuso di devozione soppresso, in qualche tradizione popolare o leggenda abbandonata, diciamo anche, in qualche interpretazione teologica su questione npinahile rinnovata? Ovvero starebbe in ben altro? Altro certamente pare che pretenda cotesto «profondo moto interno di riforma e di rinnovamento» che il Sabatier annunzia e vuole fomentare in seno alla Chiesa:  sicchè talora sembra ridursi il dogma o l'interpretazione del dogma a simbolismo, a mero soggettivismo, a evoluzionismo e simili. Il chiarire bene questo punto sarebbe certo non ignobile argomento, e avrebbe del nuovo, perchè mentre tanti oggi ne parlano, nessuno si spiega chiaro: onde nasce quella confusione, che deploriamo.

III.

Ma forse la diversità non essenziale vorrà essere tutta nelle «rinnovate scienze religiose»? Da queste fiorirà poi la nuova apologia consentanea al pensiero moderno, e quindi il rinnovamento della fede e della vita religiosa: perchè all'odierna decadenza della fede è da temere, ci dice il Minocchi, che abbiano cooperato alcuni apologisti vecchi, poveri di scienza storica e troppo conservatori.
Ma, anzitutto, queste rinnovate scienze, questi studi religiosi moderni, pare che si vogliano tutti ristringere alla critica storica o al metodo storico-critico: giacchè fra molte oscillazioni di pensiero solo della «genesi»di questo si parla. E ciò sarebbe errore gravissimo: sarebbe il ridurre tutta la cultura nuova ad un solo ramo, anzi ad un metodo o all'applicazione di esso, che è solo una via alla scienza; via buona, non unica.
E diciamo via buona, se bene usata: giacchè qui, più che mai, è necessario, ciò che d'ordinario non si fa, dichiarare il retto uso del metodo che si esalta e sceverarlo dall'abuso che non è più nè critico nè storico, benchè ne usurpi il nome. Del primo, cioè della vera critica, si potevano ripetere le sapienti parole del regnante Pontefice, Pio X, nella sua Enciclica Iucunda sane del 15 marzo 1904: «Ipsa per se (critices disciplina) culpa vacat, legitimeque adhibita conducit ad investigandum felicissime». [«Essa (la scienza critica) è per sè innocente ed elemento sicuro di ricerca, quando sia rettamente applicata.» N.d.R.] Il che da tutti certamente si deve ammettere, nè ha bisogno di lunga ed erudita dimostrazione. L'abuso invece si deve riconoscere, purtroppo, che è trascorso e può trascorrere, anche presso cattolici, a qualche errore; ed è noto il caso, oramai non più unico, in cui tale abuso fu causa non solo d'infiltrazione, ma di una più o meno coperta professione di razionalismo o di protestantismo. Ciò perchè si sprezzò la logica, e per far opera di critica si calpestò la critica, che della logica è parte.
Questo pericolo potrebbe sorgere dalla confusione che ingenerano le tante lodi enfatiche di «una critica storica applicata alla scienza religiosa in modo scevro d'ogni preconcetto filosofico» e di una «scienza moderna» che viene pure ad essere tutta identificata con «la critica sperimentale sostituita alla semplice riflessione attraverso un qualsiasi specchio logico» e simili. Sicchè, oltre a tante altre cose che si potrebbero qui notare, sembra quasi che si riguardi la questione religiosa, con tanti problemi che le si attengono, come questione solo di fatti contingenti e sperimentali: e di più nello studio di questi fatti, come nello studio critico della storia, anzi pure della scienza religiosa, si voglia escluso ogni elemento razionale o filosofico, ogni uso di logica. per considerarvi solo, a così dire, il fenomeno greggio del fatto. Così verrebbe distrutta a un colpo, nonchè ogni filosofia della storia, la consistenza e la ragione e l'uso medesimo della critica che si esalta, togliendo o indebolendo il fondamento necessario alla discussione, all'esame, all'intelligenza dei fatti e delle testimonianze: onde si schiuderebbe la via allo scetticismo anche nella critica e nella storia.
Chi non sa, infatti, quante questioni, conclusioni, principii strettamente filosofici, anzi propriissimi della logica, si presuppongono alla retta intelligenza e applicazione dello stesso metodo storico e critico, specialmente quando si voglia applicato questo metodo alla scienza religiosa, al dogma? Il critico e lo storico può a buon diritto, e deve anzi assumere come lemmi e postulati le conclusioni dimostrate dalla scienza, superiore, che è la filosofia; nè può a niun conto ripudiarle come preconcetti filosofici.
Chiunque perciò presumesse che la critica, per quanto sperimentale, dovesse rinunziare ai principii della filosofia, alle leggi del raziocinio dialettico, alla semplice riflessione logica, rinunzierebbe a discernere anche quando la testimonianza altrui sia norma utile e necessaria a giudicare, e quando no; quando meriti fede così piena da escludere ogni dubbio prudente, e quando non la meriti punto, o la meriti così da lasciar adito al dubbio: insomma rinunzierebbe, abbandonando la riflessione richiesta dall'uso della logica, a tutte le regole della critica, che ne sono il frutto, alla loro pratica applicazione; rinunzierebbe, ripetiamo, a se stessa, e riuscirebbe infine ad uno sfiduciato agnosticismo.
Lo scrittore fiorentino non può ignorare che a questa sfiducia scettica degli stessi metodi critici, si sono oggi abbandonate molte nobili intelligenze che, traviate dalla smania stessa della critica e nell'ordine delle idee e dei fatti, avevano voluto far getto delle prove razionali, o almeno trasandarle, come superate omai, essi dicevano dal pensiero contemporaneo; laddove noi ci ostiniamo di crederle fraintese, o ignorate.

IV.

E in questa credenza ci confermiamo anche rileggendo parecchie nuove asserzioni, che hanno tutto il sapore del paradosso in questo programma di «nuova coltura del clero». Ma particolarmente, per restringerci alla prima parte che ci si offre come genesi degli studi religiosi moderni, ci fanno stupore le accuse che il Minocchi rivolge, come già il Laberthonnière ed altri suoi segnaci, contro la filosofia greca, e in ispecie contro quella di Platone e di Aristotile. Questa è posta fra le cause precipue che impedirono il progresso della scienza, cioè del metodo storico-critico fra Greci e Romani, e di poi nello stesso cristianesimo.
Questa è accusata di funesto dualismo ammesso nella natura dell'uomo «quasi fosse esso composto per giustaposizione di materia formata (?) e di spirito intellettivo»: questa si dice che veniva di necessità a rompere la nostra unità di vita senziente e pensante; anzi a rendere ogni vera scienza impossibile. Capi di accusa cotesti, come altri somiglianti, di una gravità enorme: ma peggio ancora sarebbe l'accusare la filosofia degli ostacoli frappostisi alla scienza del cristianesimo fra i Romani, e quasi anche delle persecuzioni mosse al cristianesimo stesso, particolarmente da Giuliano. Chi sa? Col metodo storico-critico della nuova cultura questo imperatore non sarebbe divenuto l'apostata? e le persecuzioni si sarebbero risparmiate? Ma, via, lasciamo andare le ipotesi! Omai è troppo nota, massime col moderno progresso di studi storici, la parte che ebbe la filosofia pagana nelle persecuzioni.
Di poi, «cessò per la scienza l'impedimento assoluto della vecchia metafisica»: ma si attraversarono altre cause, cioè, oltre all'invasione e al regno anarchico dei barbari, la scienza o l'idea del monachismo e la dottrina scolastica.
Queste due, se valgono le premesse del Minocchi, parrebbero appunto meritevoli di essere poste tra le «cause d'intorpidimento e di ristagno della scienza», quando la scienza s'identifichi con il metodo storico critico, sperimentale. Quindi le grandi benemerenze del clero e del monachismo quasi in ogni parte dello scibile, non mai interrotte del tutto, neppure fra le inondazioni dei barbari e fra le tenebre del medio evo, quand'essi erano soli a conservarci i tesori della sapienza antica, sarebbero da rilegarsi tra le leggende, o se non tanto, da attenuarsi in gran maniera: giacchè il Minocchi recisamente afferma, che non meno dei barbari dominanti «erano indifferenti o nemici dell'antica civiltà gl'intellettuali fra i vinti, che in nome dell'idea cristiana e particolarmente monastica, trascuravano ogni altro pensiero che non fosse di salvare la vita del corpo quaggiù e l'anima nell'altro mondo». Forse, ciò scrivendo, egli pensava ai nomi di quegli intellettuali che furono un Boezio, un Cassiodoro, un Gregorio Magno, un Benedetto e simili con la schiera numerosa dei loro discepoli?
Quindi, aggiunge egli, la scienza del monachismo non fu nè sperimentale, nè critica, una si mantenne per metodo metafisica e mistica. Il qual fatto doloroso è però generosamente scusato da lui; perchè, egli dice, «era irresistibile, che la metafisica sostituisse tutta la realtà delle cose, o che al misticismo si chiedesse di affermare verità di cui appariva imperfetta la dimostrazione scientifica». Ma in questa scusa generosa ci pare che scivoli con arte una definizione confusa affatto nuova, dell'uffizio proprio della metafisica non meno che della mistica: definizione che sembra contrapporre l'una e l'altra alla realtà, alla verità, alla scienza, riducendole a un mero soggettivismo, o com'egli parla «a contemplare l'universo, oltre la visibile sussistenza, nello specchio interiore del pensiero»; sicchè l'una balza di seggio tutta la realtà; e l'altra si arroga di affermare ciò che non è dimostrato.
Più incerte anche e più confuse ci appaiono altre così fatte asserzioni o piuttosto insinuazioni, gettate là dallo scrittore, come per incidente, in qualche membretto o inciso di quelle sue molto complesse proposizioni. Così «la metafisica medioevale, tralasciata o negletta l'esperienza, riposavasi in un'astratta costruzione dell'universo, compiuta per via d'induzioni sillogistiche nell'interno del pensiero»; e subito appresso è designata come «un'arbitraria proiezione della logica aristotelica nella realtà delle cose, alle quali talvolta sostituivasi invece di rappresentarle».
Più sotto ci è lodata la vita e la natura, quale appariva agli umanisti ben «diversa da quella già sognata e definita con l'induzione logica»: si deplora l'intelligenza medioevale chiusa nei limiti del monachismo: si accusa di nuovo la logica aristotelica cresciuta nel monachismo, «di aver usato o abusato del sillogismo aristotelico per fare di tutto lo scibile una teologia» onde sarebbe stata proprio questa logica la causa che l'avversione alla metafisica divenisse avversione alla teologia, alla fede, al cristianesimo.

VI.

Ma sopra tutto contro il sillogismo drizza i suoi colpi il Minocchi, a nome della nuova cultura del clero: sicchè, purtroppo, si ebbe le più acerbe censure perfino dal suddetto scrittore della Rassegna Nazionale, il quale ci dice di sè: «Chi scrive questa critica è un laico, non ha studiato sotto maestri entusiasti della scolastica, non ha molta simpatia per la filosofia tomistica... eppure non può denigrare così il sillogismo come fa il professor Minocchi... Per il Minocchi il sillogismo diventa sinonimo di errore». Le parole sono gravi, ma non ingiuste per chi legga e intenda quanti aggravi si facciano dal Minocchi al sillogismo in poche righe [5]: il sillogismo diviene errore nella storia: errore nella vita e nell'arte: errore nella scienza e nel diritto. Odasi infatti com'egli ne parla: «Gli umanisti avevano tutti chi più chi meno intaccato il sillogismo nella storia: Leonardo e Michelangelo nella vita e nell'arte: Colombo in pochi mesi di navigazione aveva sfatato il sillogismo della formazione del globo... Galileo negava il sillogismo astronomico, più presuntuoso di tutti».
Non si può negare la peregrinità di questa scoperta del nuovo metodo storico critico! Ed essa apre la via ad altre non meno saporose... Dove sarà mai intaccato il sillogismo, nella Cena di Leonardo o nella cappella Sistina o nelle altre immortali opere di Michelangelo? Dove annegatosi attraverso all'Atlantico, nei pochi mesi di navigazione del grande ligure ardito? Dove soprattutto quel presuntuoso del sillogismo astronomico si trovò umiliato da Galileo?... Saranno scoperte curiose della «nuova cultura»: cose proprio da far onore al clero.
Nè basta ancora. Il sillogismo storico tollerava o sosteneva pregiudizi; il sillogismo giuridico coonestava gli abusi, talvolta, del potere ecclesiastico: e pregiudizi abusi «ebbero una reazione che si manifestò nella irreligione e nella immoralità degli umanisti, dei filosofi e degli artisti, nelle lotte degli Stati contro la Chiesa, nelle ribellioni popolari contro il cattolicismo, e (meno male!) nella riforma cattolica del Concilio di Trento». Tutto questo po' di roba, e se Dio vuole, anche il protestantesimo, andrebbe così a carico del sillogismo! E se fioriva «la nuova cultura» col suo metodo storico-critico. queste rovine si risparmiavano? Bisogna convenirne. Ma il Minocchi deplora che «anche ai tempi nostri per rimaner fedele al sillogismo tradizionale la nostra scienza cadde nel ridicolo, e ne reca per esempio il Dictionnaire de la Bible del Vigouroux; e durante quasi intero il secolo XIX gli apologisti cattolici hanno
sconfessato la critica, e ne dà per prova la testimonianza dell'Houtin, in una sua opera condannata! [6]»
Chi così ragiona ci pare quasi che abbia i suoi motivi di screditare il sillogismo, nè possa davvero contentarsi di quei tre magri termini che il sillogismo comporta, e, molto meno, della intolleranza della vecchia logica a non volerne patire di più. E, ammessa la verità relativa e mutabile, che è un altro comodo ritrovato della nuova filosofia, non avrà davvero questa verun bisogno di stare al rigore dell'argomentazione sillogistica, nè di ridurre ad essa, come usava la vecchia logica, ogni altra forma di dimostrazione, e perfino quella dell'induzione, che si vorrebbe sola superstite allo sfacelo della logica, per farne lo strumento del metodo storico-critico. Così, spaziando liberamente fuori delle pastoie sillogistiche, fuori d'ogni impedimento di vecchia metafisica, la nostra scienza, pregna di pensiero babilonese e di vita romana, non cadrà nel ridicolo!.....

VI.

Finora il sillogismo null'altro era stato che l'espressione più semplice e più nitida dell'interno discorso della mente umana; nè per sè conduceva in modo alcuno all'errore, se non quando era viziato nella forma o malamente frainteso o poggiato su principii erronei. Ma quando noi supponessimo che la mente umana ha errato tanto, e necessariamente, nell'uso di questa forma più semplice del suo discorso; quanto più si dovrà temere che debba errare nell'applicazione di criterii così complessi e talvolta così delicati del metodo storico-critico; che erri l'acume del critico nell'esaminare e vagliare i fatti, la memoria dello storico nel ricordarli e consegnarli ai posteri, l'occhio del testimone oculare, l'orecchio del testimone auricolare, la mano dello scrittore o copista o tipografo, che ce li ha tramandati, e non meno la perizia dell'interprete nello scoprire e correggere gli errori di amanuensi, gli scolii di annotatori. le aggiunte di interpolatori e via via, massime se in tutto questo lavorio lo studioso si deve interdire l'uso del sillogismo cioè del processo logico più naturale.
È vero che con lo screditare tanto la metafisica, la logica e fin il valore del sillogismo, il Minocchi non deve intendere di mettere in fascio ogni prova razionale, ogni forma d'argomentazione speculativa; ma egli avrebbe dovuto evitarne perfino l'apparenza, per non sembrare di voler porre la nuova cultura del clero in una antitesi diretta, in una opposizione di sistema, rimpetto al metodo razionale del quale sarebbe del tutto falso credere che presumesse conchiudere ogni cosa a priori, senza riguardo all'esperienza, ovvero pretendesse «armonizzare il sillogismo con un fatto che serve a smentirlo». Se questo potè essere errore o abuso di alcuni, non fu del sistema dottrinale né di Aristotele, nè di S. Tommaso e neppure egli scolastici principali che lo seguirono. La nuova cultura dunque farebbe opera poco storica e poco critica supponendo, senza provare, così forti affermazioni, prendendo un così dubbio atteggiamento, com'è quello di entrare a combattere il fondamento intellettuale della scienza stessa sperimentale.

VII.

Ma abbattuto questo fondamento con 1'esclusione del sillogismo e della metafisica — a quel modo che già altri rappresentanti della nuova coltura proclamano fin l'epicedio delle scienze esatte, e simili indirizzi di agnosticismo scientifico, non ignoti certamente all'erudito scrittore — quale sostegno resta al metodo storico-critico, alla critica sperimentale, cioè alla stessa scienza moderna che in lei s'incentra?
Resterà sempre un sostegno, si dirà, un supremo rifugio nella coscienza interiore: «Sulla infrangibile rupe della coscienza interiore edificava S. Agostino il sapere religioso e morale, sulla coscienza fondava S. Girolamo i principii della critica storica applicata alla Bibbia: noi possiamo dirci ancora loro discepoli e ammirare la loro perpetua modernità [7]... Il pensiero cartesiano ristaurò nella sua integrità originale il principio della scienza... ricollocandolo in quel santuario della coscienza interiore dove ha le sue radici e fiorisce il principio cristiano... L'idea cartesiana del sapere era quella che prima succedeva, con una parentesi di dodici secoli, al pensiero di S. Agostino [8]» — fondato, come s'è detto, nella coscienza interiore. Con questo s'insinua, pare a noi, l'idea, già sostenuta negli stessi Studi religiosi, come giustissima in sè, da un altro amico della nuova cultura «che nulla può penetrare nell'uomo se non scaturisce da lui... che non v'è per lui verità fissa e precetto ammissibile, nè come fatto storico, nè come insegnamento tradizionale, nè come obligazione esterna, che non sia, in qualche modo, autonomo ed autoctono» [9].
Si sostiene cioè e si vuole applicato al metodo storico-critico il principio fondamentale del così detto metodo dell'immanenza: di cui non v'è il più contrario all'obbiettività della storia e della critica, almeno preso come suona: giacchè supporrebbe alfine che il fatto storico sia un prodotto esso pure della coscienza interiore, nè consti a noi se non come forma soggettiva del proprio io, secondo le note dottrine essenzialmente kantiane. Ammesse le quali, sarebbe poi bene strano se vi fosse chi si accalori contro l'idealismo greco di Aristotele e della scolastica, fonte di tutti gli errori! Più strano ancora se si credesse di far trionfare con ciò il principio cristiano e di salvarsi dallo scetticismo. ricorrendo al dettame della coscienza interiore per il fondamento della critica storica e biblica, dopo aver tanto depresso ogni processo logico della ragione. Stranissimo poi, il volere che questa confusione di dottrina sia suffragata dall'autorità di S. Agostino e di S. Girolamo: dei quali, ci dice il Minocchi, «con profondo sentimento di verità noi possiamo dirci ancora discepoli, e provare la gioia e l'ammirazione per la loro perpetua modernità»: tanto più che per così gran tempo «quei grandi iniziatori non ebbero degni seguaci...» — cioè fino a che non fu chiusa la parentesi di dodici secoli addirittura, fino a Renato Descartes.

VIII.

Avrebbe troppo buon giuoco chi volesse raccogliere e mettere sott'occhio ai nuovi denigratori della logica le testimonianze dei due Padri latini, rinnovando a chi legge «la gioia e l'ammirazione per la loro perpetua modernità». Basterebbe leggere con quanta modernità dipinge S. Girolamo nella sua epistola a Domnione, quel cotale chierichetto o monacello «circumforaneum, rumigerulum, rabulam, vafrum tantum ad detrahendum» [«ciurmadore, cicalone, acuto solamente nel biasimare» N.d.R.] che si spassava per le vie di Roma, absque praeceptore perfectus [«fattosi perfetto senza precettore» N.d.R.], πνευματοφόρος καὶ αὐτοδίδακτος [«ripieno di spirito divino e autodidatta» N.d.R.]. E il fiero dalmata si querela col romano: «hunc dialecticum urbis vestrae ... non legisse quidem κατηγορίας Aristotelis, non περὶ ἑρμηνείας ... non saltem Ciceronis τόπους, sed per imperitorum circulos muliercularumque συμπόσια, syllogismos ἀσυλλογίστους texere.» [E che questo dialettico della città vostra ... non avendo pur letto le Categorie di Aristotele, non il Trattato sull'interpretazione ... non almeno i Topica di Cicerone, se ne va per i circoli degl'ignoranti e tra i banchetti delle donnette, tessendo sillogismi assurdi (ἀσυλλογίστους). N.d.R.] Stolto sono io, conchiude il santo, che ho creduto di non poter sapere queste cose senza i filosofi ... «Frustra ergo Alexandri verti commentarios; nequidquam me doctus magister per εἰσαγωγήν Porphyrii introduxit ad logicam ... » [10]. [«Invano dunque ho tradotto i commenti d'Alessandro (Alessandro di Afrodisia, commentatore di Aristotele del II-III secolo d. C.); invano il dotto maestro m'introdusse alla logica per mezzo dell'Isagoge di Porfirio...» N.d.R.]
Nè meno pungente egli scrive contro Rufino, per il suo sprezzo contro la logica [11]: e più pacato ma non meno istruttivo torna a parlare della filosofia e della dialettica in più altri luoghi, e vi accenna anche nella sua lettera a Paolino sullo studio delle Scritture: «ut intelligeres, egli dice, te in Scripturis sanctis sine praevio et monstrante semitam non posse ingredi» [12]. [«... affinchè tu comprenda che non puoi entrare nella via delle Scritture sante senza guida e senza chi te la mostri. N.d.R.] Con che il santo mostra insieme com'egli non fondava per certo la sua critica biblica sulla coscienza interiore, la quale potrebbe anche confondersi con verto spirito privato protestantico, e con quella esperienza religiosa, cara ai pietisti e ad alcuni noti mistici moderni.
Con S. Girolamo si accorda S. Agostino in molti passi, come ad es., nel libro II De Doctrina Christiana, dove espressamente sostiene l'utilità somma del metodo dialettico a penetrare e disciogliere ogni genere di questioni che s'incontrano negli studii sacri, nelle scritture sante, solo avvertendo che la dialettica non dev'essere litigiosa: perchè molte volte occorrono sofismi e false conclusioni di ragionamenti, che per lo più imitano le vere conclusioni così da presso da trarre nell'inganno non solo uomini tardi, ma anche ingegnosi, quando siano meno desti nell'attenzione [13]. E più energicamente contro Cresconio donatista, che appunto gli aveva rinfacciato l'uso della dialettica «quasi christianae non congruat veritati», [«come se non fosse adeguata alla verità cristiana» N.d.R.] mostrava il santo Dottore l'esempio degli Apostoli e di Cristo stesso, il quale «exemplum nobis tale proposuit, ut eos potius etiam veritatis inimicos vigilanti interpretatione et invicta ratione testimonium veritati perhibere cogamus». [«ci diede un siffatto esempio, che cioè noi piuttosto, attraverso un'attenta esposizione e una ragione inconfutabile, pieghiamo anche i nemici della verità a dare testimonianza alla verità.» N.d.R.] E così lo stringeva, come noi non oseremmo stringere i nostri contradittori: «Sed tu videlicet non dialectica uteris cum contra nos scribis?... Si noxia sunt, quare hoc facis? Si non sunt, cur arguis?» [«Ma tu non usi forse la dialettica scrivendo contro di noi? ... Se esse (l'eloquenza e la dialettica) sono dannose, perchè le usi? Se non lo sono, perchè le attacchi?» N.d.R.] E affermava senz'altro: «Neque enim, cum hoc mihi obiicis, imperitia te falli puto, sed fallere astutia», [«Infatti, biasimandomi per questo (per l'uso della dialettica), ritengo che tu non ti inganni per ignoranza, ma vuoi ingannare con astuzia.» N.d.R.] parendogli troppo evidente la verità: «Hanc enim artem quam dialecticam vocant... numquam doctrina christiana formidat» [14]. [«Quest'arte dunque che è detta dialettica ... non è temuta in alcun modo dalla dottrina cristiana» Si tenga presente che per sant'Agostino la dialettica è la scienza del disputare per discernere il vero dal falso (disputatio dialectica ... qui enim disputat, verum quid sit disputando discernit a falso, ib.), cioè il retto uso della ragione ovvero la logica nel suo significato più alto, e l'eloquenza le è solo di ausilio (Hoc ille verus disputator si late diffuseque faciat, eloquenter facit, alioque tunc censetur augeturque vocabulo, ut dictor potius quam disputator vocetur. Ib.)  N.d.R.]
Con ciò, crediamo bastevolmente dimostrata la confusione portata nel linguaggio e nelle dottrine da coloro che appellando a torto all'autorità dei Padri, onde si dicono «discepoli», screditano, a nome del progresso e della nuova cultura, i metodi più sicuri e le conquiste più certe della scienza teologica accreditata nella tradizione della Chiesa e nei Concilii. Non sarà questa la scuola donde si possa sperare una nuova apologia del cristianesimo.

NOTE:

[1] Vedi in particolare quad. 1335 (3 febbr. 1906) p. 257 ss.; quad. 1337 (3 marzo) p. 559 ss.
[2] Carlo Caviglione, Che è la nuova cultura del clero? in Rassegna naz. (16 maggio 1906). Non ci accordiamo pero col severe critico in tutto, molto meno nelle censure rivolte ai neo-scolastici, come il Mercier!
[3] Di questo opuscolo il Minocchi aveva già fatto nel fascicolo precedente (genn. febbr. 1906. p. 943) la recensione, conchiudendo: «La speranza e l'augurio di Paolo Sabatier è evidentemente rivolto al movimento nostro, e noi non possiamo non sentirci lusingati, per amore della Chiesa, delle forze vitali che si suppone noi saremo per rinnovare nel pensiero cattolico. Ma in tal caso ci occorre di ben mettere in chiaro che noi col pensiero nostro non vogliaino minimamente porci in contrasto con le supreme Autorità della Chiesa». Ottima quest'ultiina conclusione, ma bisogna pure avvertire di non porsi in contrasto con le direzioni e l'indirizzo autoritativo del magistero non solo straordinario, ma anche ordinario della Chiesa, nè ricercare nuove dichiarazioni dove già parlano con bastevole chiarezza le precedenti. Che cosa valgono le più umili, le più fervide protestazioni, se ad esempio, dopo
il ragguaglio di una udienza pontificia, segue tosto un programma di filosofia contraria a tutte le direzioni pontificie? Cf. Studi religiosi, fasc. III. anno V (maggio-giugno 1905).
[4] In questa il Sabatier, l'«apostolo ardente delle tendenze religiose più larghe e comprensive» come lo chiamava la defunta Cultura sociale (16 gennaio 1906), mostra abbastanza chiaramente le sue intenzioni finali di riforma cristiana, ma non così forse da disingannare quei «chierici nuovi» che gli corrispondono e hanno da lui in ricambio il poco invidiabile onore delle sue lodi. Noi godiamo invece di essere tra quelli ch'egli onora delle sue invettive, le quali giungono spesso, in questa seconda edizione, fino alla puerilità rabbiosa, al parossismo della passione. Così, ad esempio, ingiuria i cattolici con questi bei titoli «de gamins, de frelons et d'aventuriers» e con simile linguaggio. E scrittori così fatti si danno aria di critici sereni! Godono fama e fiducia di veder ben addentro... e sono stimati apostoli ardenti ecc.!
[5] Vedi. p. e. a pag. 155.
[6] Ivi. p. 161, testo e note.
[7] Ivi. p. 148.
[8] Ivi. p. 153 s.
[9] Il neotomismo e l'università di Lovanio, negli Studi religiosi (sett.-ottobre 1904).
[10] Hieron. Epist. L (al. LI), ap. Migne, Patr. lat. XXII, 513.
[11] «Quoniam stoici logicam sibi vindicant et tu huius scientiae deliramenta contemnis, in hac parte epicureus es; nec quaeris quomodo, sed quid loquaris. Quid ad te pertinet, si alius non intelligat quid velis dicere, quia non ad omnes, sed ad tuos loqueris? Denique et ego scripta tua relegens, quamquam interdum non intelligam quid loquaris... tamen non doleo, nec me poenitet tarditatis: id enim in legendo patior quod tu pateris in scribendo.» Adv. Rufin. I, 30. ap. Migne, XXIII. 423. — Di quanti sprezzatori della filosofia tradizionale e del sillogismo si potrebbe forse dire qualche cosa di somigliante, e forse con più ragione che di Rufino.
[12] Epist. LIII (al. CIII), ap. Migne, XXII, 544.
[13] August. De doctrina Christiana l. II, c. 31. ap. Migne, XXXIV, 58: «Disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum quae in litteris sanctis sunt penetranda et dissolvenda, plurimum valet: tantum ibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium. Sunt enim multa quae appellantur sophismata, falsae conclusiones rationum et plerumque ita veras imitantes ut non solum tardos, sed ingeniosiores etiam minus diligenter attentos decipiant...».
[14] August., Contra Crescon. Donatistam, l. I, c. XII, ap. Migne. XLIII, 455 ss.

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