lunedì 22 maggio 2017

ERRORI VECCHI NELLA «STORIA DEL CRISTIANESIMO» DEL PROF. E. BUONAIUTI (III)

La Civiltà Cattolica anno 69°, vol. II, Roma 1918 pag. 140-149.

13. Altro errore modernista del Buonaiuti: evoluzione obiettiva del dogma.

Stabilendo un paragone tra S. Pietro e S. Paolo, come già aveva fatto tra Gesù e S. Paolo, il Buonaiuti dice che: «nel discorso di Pietro, della Pentecoste... si parla di Gesù con assi minor concetto del suo valore di quello che sarà poi nella predicazione paolina» (pag. 152); e che «la dottrina di Paolo suonò ben diversa da quella di Pietro» (pag. 153). Laddove «Pietro aveva cominciato ad insegnare che Iddio aveva fatto Gesù Messia premiando così quell'Uomo giusto» (pag. 545), «l'insegnamento di Paolo sorge un poco più tardi a rivoluzionare completamente l'insegnamento di Pietro. Il messaggio Paolino fu questo: Gesù medesimo è Dio» (pag. 546). E più oltre: «Paolo predicò Cristo Dio, Redentore dell'umanità e del mondo, per la sua morte di croce, sulla quale trionfò con la gloriosa risurrezione sconfiggendo definitivamente il male. Nella dottrina dell'Apostolo sono dunque contemperati e fusi insieme, attorno alla figura storica di Gesù, due diversi ordini di elementi mistici: gli elementi giudaici delle aspettative messianiche, ed elementi tratti dalle religioni dei misteri» (pag. 549).
Queste affermazioni, che il Buonaiuti fa con una disinvoltura appena credibile, sono gravi delle più estreme conseguenze: 1a, che la Chiesa primitiva disconobbe il domma fondamentale del cristianesimo, in una parola non fu cristiana; 2a, che S. Pietro, costituito da Gesù come fondamento, maestro e guida della Chiesa, era in condizioni molto inferiori ad un suo suddito nella comprensione del domma cristiano; 3a, che Gesù, il quale aveva levata al cielo la confessione di Pietro («Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo») dichiarandola rivelazione divina singolarissima ed eccezionale, avendovi riconosciuto la proclamazione della sua dignità al massimo grado, non aveva coscienza della sua divinità, e bisognava che un estraneo venisse a rivelare questa sua caratteristica personale alla coscienza cristiana; 4a, non avendo Cristo coscienza della sua divinità, ciò vuol dire che egli non fosse realmente Dio, e quindi la cristologia sarebbe creazione della fede soggettiva delle generazioni cristiane posteriori a Gesù, e le formole primitive della cristologia con il loro contenuto sarebbero infinitamente distanti dalle formole più recenti e dal loro rispettivo contenuto.
Non sappiamo che cosa risponderà il Buonaiuti a queste conseguenze immediate delle sue affermazioni; è da supporre che egli le concederà se vuol essere coerente, applicando solo alla 4a la distinzione che fanno gli autori della Risposta dei modernisti. Questi signori dichiarano di riconoscere nel «Cristo istorico», e nella formola della sua predicazione, germe della cristologia, «una realtà superiore a quella dei fatti fisici e storici» (pag. 110), aggiungendo che «dal punto di vista ontologico, nel Cristo della storia stavano racchiusi quei valori etici e quelle significazioni religiose, che l'esperienza cristiana ha intuito lentamente», non però creando, perchè «la fede non crea nulla, ma soltanto scopre» (pag. 114). Per tal modo al 4° corollario rispondono con la seguente distinzione: la cristologia è opera della coscienza cristiana per semplice contemplazione, concedo: per creazione obiettiva, nego. E medesimamente: le formole posteriori col rispettivo contenuto distano all'infinito dalle formole primitive, psicologicamente, concedo; ontologicamente, nego.
Noi però domandiamo: 1.° Qual è quella legge psicologica o ontologica, in virtù della quale le generazioni anteriori, cioè del cristianesimo, primitivo, ed anche lo stesso Gesù, furono incapaci di tale contemplazione, e per effettuare la quale fosse necessaria l'evoluzione successiva di secoli, non ostante che nel nucleo primordiale fossero inclusi ontologicamente tutti i valori religiosi successivi della cristologia, e quindi potessero anche allora essere contemplati? Dove stavano oggettivati quei valori ontologici?
Prendiamo, ad esempio, la divinità di Gesù. Se questo valore religioso non fu una pura creazione fittizia di S. Paolo, ed aveva, indipendentemente dal pensiero dell'Apostolo, una realtà ontologica ben definita, che attendeva solo di essere contemplata, dove mai sussisteva questa realtà? L'enunziato: «Gesù è Dio», se non era oggettivato e non sussisteva nella persona stessa del Signore, è necessariamente e totalmente falso, quindi una pura invenzione di chi lo formulò, giacchè la sua realtà o sussistenza ontologica sarebbe stata chimerica. Se, invece, sussisteva in Cristo medesimo, come poteva occultarsi alla contemplazione della sua coscienza? Qual sorta di divinità personale era questa, che non era nè goduta, nè conosciuta e perfino non sospettata da colui che la possedeva?
Domandiamo, 2°: Come mai le energie contemplatrici delle varie generazioni si sono attuate con una intensità così sproporzionatamente disuguale? In fatti, nel brevissimo spazio di tempo, in che furono scritti i libri del nuovo Testamento, si pervenne allo svolgimento perfetto della teoria cristologica, laddove in tutte le generazioni posteriori non si è fatto nessun progresso d'importanza. Or bene, se si trattasse di pure creazioni fantastiche, che non hanno altro fondamento fuori dalla fantasia, la spiegazione non sarebbe tanto difficile, giacchè le costruzioni della fantasia non sono soggette a norme oggettive. Nell'ipotesi modernista, però, lo svolgimento dell'oggetto e della formola primordiale sarebbe previamente definito e determinato in tutte ed in ciascuna delle sue evoluzioni. Domandiamo dunque quale può essere la ragione, per cui si vuole che le facoltà umane, in presenza di quell'oggetto, abbiano potuto comportarsi come non mai si sono comportate in qualsiasi altro oggetto in tutto l'ambito della loro attività attraverso la storia intera?
La ragione vera ed unica non può essere se non questa, che i modernisti vogliono far passare nell'insegnamento interno della Chiesa, sotto il coperto e la maschera di formole ambigue, che in apparenza salvino l'oggettività ed in realtà la distruggano, la negazione pura e semplice del contenuto dogmatico, ad esempio: «Gesù non è Dio», negazione che, detta apertamente, rovescerebbe tutti i loro disegni di penetrazione e di sopravvento, da essi stoltamente sperato, nell'insegnamento della Chiesa.

14. La Cristologia di S. Pietro è uguale a quella di S. Paolo.

Ma, torniamo ai fatti. È proprio vero che il concetto di S. Pietro sopra Gesù sia inferiore a quello di S. Paolo? Il Buonaiuti presenta, come espressione del sublime concetto di Paolo sulla persona di Gesù, la nozione della «morte e sofferenza vicaria del Cristo, che aveva riscattato tutti gli uomini dal peccato», formulata, dice egli, «per la prima volta» da S. Paolo (pag. 153-154). Or bene, il medesimo concetto, esattamente, aveva espresso S. Pietro molti anni prima nei suoi discorsi. Nel primo che egli fece ai giudei, afferma che Gesù «fu donato a morte, per decreto previo e determinato di Dio» (Act. 2, 23); e immediatamente dopo, dice: «sia battezzato ciascuno nel nome di Gesù Cristo, per ottenere la remissione dei peccati» (Act. 2, 38). Nel discorso seguente presenta agli uditori la «morte di Gesù», e lo stesso Gesù, così descritto, come «autore della vita» (Act. 3,14. 15), cioè fonte di vita e di salvazione. E parimente, subito dopo avere esposta la immolazione di Gesù, dichiara «non esservi sotto il cielo nessun Nome per il quale possa ottenersi salvezza» (Act. 4, 11. 12). Or quale è la ragione, per cui S. Pietro, non contento di proclamare Gesù salvatore e riparatore del genere umano, collega sempre questa idea con quella della sua morte di croce? Non altra se non quella che egli stesso dà nella sua prima epistola, dove spiega il medesimo pensiero: «foste redenti... col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato, previsto come tale prima della creazione del mondo» (1, 18-20).
Potrebbe forse dirsi che questi concetti dell'epistola sarebbero posteriori agli scritti di S. Paolo e quindi presi da lui. Ma S. Paolo dichiara espressamente d'avere lui stesso ricevuto «dalla tradizione cristiana che rimonta sino al Signore» (1a Cor. 11, 23) tutto quello che ha insegnato ai Corintii sulla Eucaristia, e che Gesù, nel dare ai suoi discepoli il pane ed il vino nella notte della passione, li diede loro come pratico ed effettivo ricordo della sua immolazione e morte per gli uomini: pro vobis [1].
Rispetto poi alla divinità di Gesù, a dimostrare che S. Pietro non ne avesse un concetto inferiore a quello di S. Paolo, basta ricordare: 1°, la sua confessione: «Tu sei il Cristo Figlio di Dio vivo», cui tutti gli evangelisti consegnano come espressione del più alto concetto che di Gesù aveva la Chiesa cristiana al tempo in cui si pubblicavano i loro scritti, cioè quando S. Paolo aveva già formulate le sue concezioni cristologiche [2]; 2°, l'espressione ἀρχηγὸν τῆς ζωῆς: autore primordiale della vita, in ambedue gli ordini, spirituale e fisico, giacchè questo concetto San Pietro lo contrappone a quello di omicida o distruttore della vita, detto di Barabba; 3°, finalmente l'affermazione onde San Pietro dice di Gesù: οὗτός ἐστι πάντων κύριος (Act. 10, 36). Se la denominazione κύριος data da S. Paolo al Signore ha valore antonomastico ed equivalente alla sua divinità, perchè non deve averlo in bocca di S. Pietro con di più l'aggiunta estensiva πάντων?

15. Errori esegetici del Buonaiuti sul peccato originale.

Asserisce il Buonaiuti: «non si era mai insegnato (almeno a quel che risulta dalla Bibbia) che nella colpa di Adamo era anche compresa la colpa di tutti gli uomini»; perciò egli dichiara questa dottrina «prettamente paolina», alla quale «giunse San Paolo (solo dopo venti anni di ministero apostolico) dalla esaltazione del Cristo» (pag. 459, 460). Cioè, secondo il Buonaiuti, se S. Paolo, per il primo «giunse alla teoria del peccato originale, da quel concetto sopra Gesù che non ebbero nè S. Pietro nè gli altri apostoli, il domma del peccato originale non appartiene al deposito della rivelazione cristiana primitiva comunicata dal Signore ai suoi apostoli.
Invece, questa dottrina non è per nulla esclusiva di S. Paolo, nè da lui formulata per la prima volta. In fatti, nella sua lettera ai Romani, cioè ad una chiesa sino a quel tempo interamente estranea ad ogni influsso paolino, egli la suppone previamente conosciuta dai suoi lettori. Quello che egli vuol dimostrare nel cap. 5 dell'epistola, non è l'esistenza del peccato originale, ma che la giustizia o grazia di Dio per la redenzione di Cristo si estende universalmente a tutti, e come mezzo di dimostrazione si serve della comparazione tra Cristo e Adamo nell'influsso di ambedue sulle rispettive posterità. «Come la colpa di Adamo — dice egli — si propagò in tutti, così la giustizia di Cristo si comunica a tutti» (Rom. 5, 12. 15. 18. 19). È evidente che qui S. Paolo suppone conosciuta dai Romani la dottrina dell'universalità della colpa in Adamo; perchè altrimenti egli pretenderebbe illustrare un estremo sconosciuto per mezzo di un altro parimente sconosciuto, che avrebbe richiesto di necessità la medesima illustrazione. E quindi, molto prima dell'anno 58, in che S. Paolo scriveva la sua epistola, era generale nella Chiesa la credenza sul peccato originale, anche dove non era giunto l'insegnamento di S. Paolo.
Il Buonaiuti, oltre che taccia di inesatta la versione latina (in di contenenza), ci dice, che laddove il testo greco fa certa la «responsabilità fisica: ripetendosi dal peccato originale la morte che tutti gli uomini subiscono», la traduzione della Volgata «include anche la responsabilità etica»: dando così ad intendere che questa responsabilità etica, e quindi anche la vera nozione di colpa sparisce se si toglie il senso continenziale di ἐπί: in, che sarebbe una pura aggiunta della tradizione.
Or bene, notiamo dapprima, come si prova che l'interprete latino dia al suo in quo (Rom. 5, 12) il senso continenziale, cioè: in Adamo? Anche in Philip. 3, 12, l'interprete volta la frase ἐφ' ᾧ parimente in quo, ed ivi e chiarissimo che il senso non è continenziale ma causale o reduplicativo, cioè: quia o quatenus. Inoltre, la nozione di responsabilità non solo fisica ma etica, cioè la nozione di vera colpa in ciascuno dei discendenti di Adamo, per la loro partecipazione nel peccato del loro capo, risulta chiara dal verbo ἥμαρτον, dalla concatenazione dei membri del v. 12 (i quali non formano periodo perfetto, come erroneamente suppone il Buonaiuti), e dalla ragione che si aggiunge nei vv. 13.14, non abbastanza capita dal professore, a quanto pare. S. Paolo dice nel v. 12 che la morte passa in tutti, in quanto (ἐφ' ᾧ: על אשר) tutti peccarono; cioè il fatto della universalità della morte è una prova dell'universalità della colpa, per la vera partecipazione nella caduta di Adamo. Questa correlazione era quello che intendeva provare S. Paolo nei vv. 13. 14, e lo fa nel modo seguente: «in verità (γάρ), prima della legge (mosaica) vi furono nel mondo molti peccati (personali), senza che da parte di Dio esistesse imposizione tassativa di pena per essi, non essendo ancora venuta la legge (mosaica). E nondimeno (ἀλλὰ) benchè non esistesse una legge che imponesse pena ai peccati, la morte, in qualità di pena (come si vede nella Genesi), toccava a tutti, anche in quel tempo in cui nessuno violava una legge positiva di Dio, coma la violò Adamo (il comando di Dio di non mangiare dell'albero proibito)». S. Paolo, secondo il suo costume, lascia al lettore di trarre la conseguenza: dunque oltre i peccati personali non castigati, ne esisteva un altro del quale era pena la morte; e peccato di tutti, poichè tutti ne soffrivano il castigo.
Inoltre, il prof. Buonaiuti suppone il peccato originale imputabile in virtù della legge mosaica, il che importa disconoscere la natura dell'uno e dell'altra. Egli disconosce del pari la differenza tra la colpa o peccato personale ed il peccato della natura. Da siffatta ignoranza procedono le sue confusioni sulla imputabilità fisica ed etica, ed in conseguenza sulla colpabilità del peccato originale.

16. Errori esegetici del Buonaiuti intorno al decreto gerosolimitano degli Apostoli.

Il nostro professore discute e risolve la grave questione del valore del mosaismo (pag. 212, 232-236) alla luce di principii erronei e senza un serio e ponderato esame dei testi. 1.° Egli concede che «la legge di Mosè era riguardata da Paolo come peccato [3], ed egli non aveva altro scopo che di fugarla» (pag. 212): poi, per mitigare la crudezza di tale espressione, si contenta di dire che essa rappresenta «il complesso rigido, diremo così, della dottrina di S. Paolo, quale può risultare nella astrazione dei critici, meglio che nella pratica dell'Apostolo» (ivi). 2.° Nelle pagine 232-236, dopo avere ammassato cinque obbiezioni[4] contro la verità storica del decreto di Gerusalemme (Act. 15), risponde: «È questione d'intendere più tosto la sua reale portata nel tempo e l'importanza che gli diedero i suoi stessi proponenti. Paolo certamente non ne fece alcun conto e forse anche Pietro consentiva con lui». In fatti, «in tutto il decreto gerosolimitano non c'è un filo della vera sostanza del cristianesimo». Perciò S. Paolo non ne fa motto nelle sue «vivaci lettere», e l'autore degli Atti lo registra in forma solenne, perchè egli «è soprattutto preoccupato dell'armonia delle chiese» (p. 235-236).
Or in tutto questo, l'egregio professore miscet quadrata rotundis, confondendo ogni cosa. 1.° Le espressioni di S. Paolo rappresentano, o no, la mente dell'Apostolo? Se S. Paolo scrisse che «la legge è un peccato», e se lo scopo del suo ministero fu estirparla, come si spiega non solo il fatto degli Atti (21, 26), che, secondo i criterii del Buonaiuti, potrebbe dirsi finzione o alterazione della storia fatta dall'autore degli Atti, ma principalmente: 1 Cor. 7, 17. 18; 9, 20-22; Gal. 5, 6: 6, 15, ecc. nei quali passi si dice perentoriamente, che la circoncisione è cosa indifferente e non impedisce la giustizia ed il merito? Possono sussistere queste affermazioni di fronte a quelle che assicurano essere un peccato la circoncisione? Può conciliarsi questa tolleranza con lo zelo di S. Paolo in estirpare quel rito?
La conciliazione non istà nel dire, come fa il Buonaiuti, che le prime frasi sono esagerazione iperbolica o semplice astrazione; una tale affermazione proviene dalla ignoranza della vera dottrina di S. Paolo e dei Dodici. Secondo questa dottrina, siccome la circoncisione giudaica era una protestazione della fede nel Riparatore futuro, venuto questi, cessa il valore del rito giudaico in quanto tale; ed il cristiano, che l'avesse praticato con tale spirito, avrebbe negato a Cristo il carattere di Salvatore, in quanto avrebbe professato di attenderne ancora la venuta. Però, poteva darsi il caso che, per giusti motivi, i giudei convertiti al cristianesimo, sebbene solo in Gesù cercassero la loro giustificazione e salvezza, continuassero a praticare la circoncisione, non con mente giudaica e come fonte di giustizia, ma come un pio rito nazionale. Questo è il vero spirito onde lo praticavano i fedeli della Chiesa primitiva gerosolimitana, prima e dopo la conversione di Cornelio e il decreto dello stesso Concilio apostolico [5].
Per tal modo viene chiaramente spiegata la conciliazione dei varii passi di S. Paolo. Certamente, in Gal. 5, 2. 4, S. Paolo dice ai Galati che se si circoncidono «perdono Cristo», «cadono dallo stato di grazia o giustizia», ma non perchè la circoncisione in sè fosse peccato, avendola praticata lo stesso S. Paolo, circoncidendo Timoteo (Act. 16, 3); bensì perchè i falsi missionarii giudaizzanti inducevano i Galati alla circoncisione proponendola, come necessaria alla salvezza (Act. 15, 2. 5; Gal. 2, 3-5). Fra coloro invece dove «per la fede in Gesù e per il battesimo come protestazione pratica di essa fede», e soltanto per questa via si cercava la rigenerazione o «nuova creazione», importava poco che si praticasse o no la circoncisione (Gal. 6, 15), non effettuandosi con mente giudaica, nè come fonte di giustizia, ma solo come un pio rito.
Nel dire poi che nel decreto apostolico «non c'è un filo della vera sostanza del cristianesimo», il Buonaiuti mostra di non aver compreso per nulla il contesto della storia del Concilio. Nel decreto apostolico, frutto della discussione precedente e con essa intimamente legato, devono distinguersi due parti: la prima, il tenore delle prescrizioni positive; la seconda, il preambolo con i rispettivi motivi e la risoluzione negativa. Le prescrizioni positive (Act. 15, 29) sono una disposizione disciplinare, diretta ad appianare, con un termine medio innocuo, certe asprezze rituali inevitabili, in quella prima espansione della fede, tra i giudei ed i gentili convertiti. Ma non è questa la parte nè unica, nè principale del decreto; d'importanza capitale è invece l'altra. La risoluzione, negativa, protestava di «non voler prescrivere come necessaria cosa alcuna ad eccezione dei quattro punti... ». I motivi sono espressi nei discorsi di Pietro e di Giacomo. La controversia che si agitava era questa: «è, o non è necessaria l'osservanza del mosaismo, (la circoncisione e la legge) come requisito indispensabile per la giustizia e salvezza?» (Act. 15, 2. 5. 6; Gal. 2, 4. 5). S. Pietro parla per il primo, e dice: «la giustizia e la salvezza possono ottenersi soltanto per la fede in Gesù, e per niun modo (nè dai gentili, nè da noi giudei) mediante la circoncisione e la legge; pretendere d'imporre il mosaismo ai gentili come indispensabile alla giustizia e salvezza è andare contro la dichiarazione espressa dello Spirito Santo e tentare Dio» (Act. 15, 8-11). Indi parlò Giacomo, aderendo a Pietro (Act. 15, 13-19), benchè suggerisse alcune osservanze, che non erano però nè la circoncisione nè la legge, anzi, come si è detto, espressamente afferma neppure richiedersi dagli etnico-cristiani cotali pratiche. (v. 20). Proposti i motivi, segue la risoluzione dell'assemblea (vv. 22-29), la quale nel preambolo (vv. 22-27) ripete il detto da Pietro e da Giacomo, in virtù di che sentenzia «non essere per niun modo il mosaismo necessario alla giustizia e alla salvezza».
Pertanto il decreto, nella sua parte principale, è l'espressione più categorica dell'essenza intima del cristianesimo: «l'unico principio giustificatore è la fede in Gesù Cristo»; cioè tutto l'opposto di quello che afferma con leggerezza il Buonaiuti!
Esposta così la storia del Decreto e la sua vera indole, non è difficile sciogliere la difficoltà del Buonaiuti sul conto che ne fecero S. Pietro e S. Paolo, e sulla questione se S. Paolo ne abbia o no fatto menzione nelle sue epistole. Essendo autori del decreto S. Pietro con i suoi compagni d'apostolato, e ispirandosi la risoluzione principalmente nel discorso di S. Pietro, questi non poteva riguardarlo come cosa indifferente. Molto meno S. Paolo, giacchè era per l'appunto una solenne sanzione della sua tesi.
Per ciò stesso è falso che l'Apostolo non citi il decreto. Le espressioni di S. Paolo, in Gal. 2, 3-9, non sono altro se non un riflesso degli Atti e la medesima risoluzione del concilio contro le pretensioni dei giudaizzanti, cioè 1'espressione fedele degli antecedenti e della genesi del decreto.
Il non essere stato costretto Tito alla circoncisione, come narra S. Paolo stesso, (Gal. 2, 3), suppone, sforzi in contrario (Act. 15, 5. 7); la ferma resistenza di S. Paolo (Gal. 2, 5) è il riflesso della magna conquisitio degli Atti (15, 7); ed il trionfo dell'Apostolo quando le «colonne» stesse della Chiesa non modificarono per nulla il suo evangelio, anzi l'approvarono (Gal. 2, 6. 7), non fa altro che presentare in compendio i discorsi di Pietro e di Giacomo con la risoluzione definitiva che ne seguì (Act. 15,7-29).

NOTE:

[1] La frase adoperata da S. Paolo in 1a Cor. 11, 23, è esattamente la stessa che in 1a Cor. 14, 3, dove certamente esprime la derivazione tradizionale. Questa derivazione non esclude, per sè, che ancheper rivelazione immediata da Cristo avesse ricevuto notizia sulla Eucaristia; è certo però che, nell'anno 57 quando scriveval'epistola, aveva sentito mille volte da testimoni immediati la narrazione della vita del Signore. Il passo Gal. 1, 12-24 dove insiste sul fatto di non aver eglicomunicato con i Dodici, si riferisce al tempo anteriore alla sua prima predicazione in Antiochia, verso l'anno 38.
[2] Non vi ha ragione per supporre che le formole degli altri evangelisti, per es. Marco 8, 29: «Tu es Christus»; Luc. 9, 20 «Christus Dei» esprimano un concetto inferiore. S. Marco e S. Luca si contentano della sola parola «Cristo», perchè, quando scrivevano i loro rispettivi vangeli, i cristiani compendiavano in questa parola tutte le eccellenze di Gesù, compresa la sua divinità; appunto perchè proponevano la confessione di Pietro come espressione del più alto concetto della Chiesa cristiana sopra Cristo, e anche secondo l'opinione avversaria, in quel tempo, posteriore alla concezione cristologica di S. Paolo, la Chiesa professava la divinità di Gesù Cristo.
[3] Allude a Gal. 5, 2. 4.
[4] Sono le obiezioni del Renan (S. Paul, p. 92). Per il Buonaiuti, il Renan è un ritardatario; perciò egli fa le viste di confutarlo, ma... riducendo a nulla il decreto.
[5] Come si vede da ciò, i proclamatori della necessità della circoncisione e della legge (Act. 15, 2. 5) sono espressamente sconfessati dagli Apostoli e Presbiteri (15, 10. 24) e vengonochiamati perturbatori (ibid.). Evidentemente si tratta di una dottrina sconosciuta finora dagli Apostoli!

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