ERRORI VECCHI NELLA «STORIA DEL CRISTIANESIMO» DEL PROF. E. BUONAIUTI (III)
La Civiltà Cattolica anno 69°, vol. II, Roma 1918 pag. 140-149.
13. Altro errore modernista del Buonaiuti: evoluzione obiettiva del dogma.
Stabilendo un paragone tra S. Pietro e S. Paolo, come già aveva
fatto tra Gesù e S. Paolo, il Buonaiuti dice che: «nel
discorso di Pietro, della Pentecoste... si parla di Gesù con assi
minor concetto del suo valore di quello che sarà poi nella
predicazione paolina» (pag. 152); e che «la dottrina di
Paolo suonò ben diversa da quella di Pietro» (pag. 153).
Laddove «Pietro aveva cominciato ad insegnare che Iddio
aveva fatto Gesù Messia premiando così quell'Uomo giusto»
(pag. 545), «l'insegnamento di Paolo sorge un poco più tardi
a rivoluzionare completamente l'insegnamento di Pietro. Il messaggio
Paolino fu questo: Gesù
medesimo è Dio» (pag. 546). E più oltre:
«Paolo predicò Cristo Dio, Redentore dell'umanità e del
mondo, per la sua morte di croce, sulla quale trionfò con la
gloriosa risurrezione sconfiggendo definitivamente il male. Nella
dottrina dell'Apostolo sono dunque contemperati e fusi insieme,
attorno alla figura storica di Gesù, due diversi ordini di
elementi mistici: gli elementi giudaici delle aspettative messianiche,
ed elementi tratti dalle religioni dei misteri» (pag. 549).
Queste affermazioni, che il Buonaiuti fa con una disinvoltura appena
credibile, sono gravi delle più estreme conseguenze: 1a,
che la Chiesa primitiva disconobbe il domma fondamentale del
cristianesimo, in una parola non fu cristiana; 2a,
che S. Pietro, costituito da Gesù come fondamento, maestro e
guida della Chiesa, era in condizioni molto inferiori ad un suo
suddito nella comprensione del domma cristiano; 3a,
che Gesù, il quale aveva levata al cielo la confessione di Pietro
(«Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo») dichiarandola
rivelazione divina singolarissima ed eccezionale, avendovi
riconosciuto la proclamazione della sua dignità al massimo grado,
non aveva coscienza della sua divinità, e bisognava che un
estraneo venisse a rivelare questa sua caratteristica personale alla
coscienza cristiana; 4a, non avendo Cristo
coscienza della sua divinità, ciò vuol dire che egli non
fosse realmente Dio, e quindi la cristologia sarebbe creazione della
fede soggettiva delle generazioni cristiane posteriori a Gesù, e
le formole primitive della cristologia con il loro contenuto sarebbero
infinitamente distanti dalle formole più recenti e dal loro
rispettivo contenuto.
Non sappiamo che cosa risponderà il Buonaiuti a queste
conseguenze immediate delle sue affermazioni; è da supporre che
egli le concederà se vuol essere coerente, applicando solo alla 4a
la distinzione che fanno gli autori della Risposta
dei modernisti. Questi signori dichiarano di riconoscere nel
«Cristo istorico», e nella formola della sua predicazione,
germe della cristologia, «una realtà superiore a quella dei
fatti fisici e storici» (pag. 110), aggiungendo che «dal
punto di vista ontologico, nel Cristo della storia stavano racchiusi
quei valori etici e quelle significazioni religiose, che l'esperienza
cristiana ha intuito lentamente»,
non però creando, perchè «la fede non crea nulla, ma
soltanto scopre» (pag. 114). Per tal modo al 4°
corollario rispondono con la seguente distinzione: la cristologia
è opera della coscienza cristiana per semplice contemplazione,
concedo: per creazione obiettiva,
nego. E medesimamente: le formole posteriori col rispettivo contenuto
distano all'infinito dalle formole primitive, psicologicamente,
concedo; ontologicamente,
nego.
Noi però domandiamo: 1.° Qual è quella legge
psicologica o ontologica, in virtù della quale le generazioni
anteriori, cioè del cristianesimo, primitivo, ed anche lo
stesso Gesù, furono incapaci di tale contemplazione, e
per effettuare la quale fosse necessaria l'evoluzione successiva di
secoli, non ostante che nel nucleo primordiale fossero inclusi
ontologicamente tutti i valori religiosi successivi della cristologia,
e quindi potessero anche allora essere contemplati? Dove stavano
oggettivati quei valori ontologici?
Prendiamo, ad esempio, la divinità di Gesù. Se questo
valore religioso non fu una pura creazione fittizia di S. Paolo, ed
aveva, indipendentemente dal pensiero dell'Apostolo, una realtà
ontologica ben definita, che attendeva solo di essere contemplata,
dove mai sussisteva questa realtà? L'enunziato: «Gesù
è Dio», se non era oggettivato e non sussisteva nella
persona stessa del Signore, è necessariamente e totalmente falso,
quindi una pura invenzione di chi lo formulò, giacchè la sua
realtà o sussistenza ontologica sarebbe stata chimerica. Se,
invece, sussisteva in Cristo medesimo, come poteva occultarsi alla
contemplazione della sua coscienza? Qual sorta di divinità
personale era questa, che non era nè goduta, nè conosciuta e
perfino non sospettata da colui che la possedeva?
Domandiamo, 2°: Come mai le energie contemplatrici delle varie
generazioni si sono attuate con una intensità così
sproporzionatamente disuguale? In fatti, nel brevissimo spazio di
tempo, in che furono scritti i libri del nuovo Testamento, si pervenne
allo svolgimento perfetto della teoria cristologica, laddove in tutte
le generazioni posteriori non si è fatto nessun progresso
d'importanza. Or bene, se si trattasse di pure creazioni fantastiche,
che non hanno altro fondamento fuori dalla fantasia, la spiegazione
non sarebbe tanto difficile, giacchè le costruzioni della
fantasia non sono soggette a norme oggettive. Nell'ipotesi modernista,
però, lo svolgimento dell'oggetto e della formola primordiale
sarebbe previamente definito e determinato in tutte ed in ciascuna
delle sue evoluzioni. Domandiamo dunque quale può essere la
ragione, per cui si vuole che le facoltà umane, in presenza di
quell'oggetto, abbiano potuto comportarsi come non mai si sono
comportate in qualsiasi altro oggetto in tutto l'ambito della loro
attività attraverso la storia intera?
La ragione vera ed unica non può essere se non questa, che i
modernisti vogliono far passare nell'insegnamento interno della
Chiesa, sotto il coperto e la maschera di formole ambigue, che in
apparenza salvino l'oggettività ed in realtà la distruggano,
la negazione pura e semplice del contenuto dogmatico, ad esempio:
«Gesù non è Dio», negazione che, detta
apertamente, rovescerebbe tutti i loro disegni di penetrazione e di
sopravvento, da essi stoltamente sperato, nell'insegnamento della
Chiesa.
14. La Cristologia di S. Pietro è uguale a quella di S. Paolo.
Ma, torniamo ai fatti. È proprio vero che il concetto di S.
Pietro sopra Gesù sia inferiore a quello di S. Paolo? Il
Buonaiuti presenta, come espressione del sublime concetto di Paolo
sulla persona di Gesù, la nozione della «morte e sofferenza
vicaria del Cristo, che aveva riscattato tutti gli uomini dal
peccato», formulata, dice egli, «per la prima volta» da
S. Paolo (pag. 153-154). Or bene, il medesimo concetto, esattamente,
aveva espresso S. Pietro molti anni prima nei suoi discorsi. Nel primo
che egli fece ai giudei, afferma che Gesù «fu donato
a morte, per decreto previo e determinato di Dio» (Act.
2, 23); e immediatamente dopo, dice: «sia battezzato ciascuno nel
nome di Gesù Cristo, per
ottenere la remissione dei peccati» (Act. 2, 38). Nel
discorso seguente presenta agli uditori la «morte di
Gesù», e lo stesso Gesù, così descritto, come
«autore della vita» (Act. 3,14. 15), cioè fonte di vita
e di salvazione. E parimente, subito dopo avere esposta la immolazione
di Gesù, dichiara «non esservi sotto il cielo nessun Nome
per il quale possa ottenersi salvezza» (Act. 4, 11. 12). Or quale
è la ragione, per cui S. Pietro, non contento di proclamare
Gesù salvatore e riparatore del genere umano, collega sempre
questa idea con quella della sua morte di croce? Non altra se non
quella che egli stesso dà nella sua prima epistola, dove spiega
il medesimo pensiero: «foste redenti... col sangue prezioso di
Cristo, agnello immacolato, previsto come tale prima della creazione
del mondo» (1, 18-20).
Potrebbe forse dirsi che questi concetti dell'epistola sarebbero
posteriori agli scritti di S. Paolo e quindi presi da lui. Ma S. Paolo
dichiara espressamente d'avere lui stesso ricevuto «dalla
tradizione cristiana che rimonta sino al Signore» (1a
Cor. 11, 23) tutto quello che ha insegnato ai Corintii sulla
Eucaristia, e che Gesù, nel dare ai suoi discepoli il pane ed il
vino nella notte della passione, li diede loro come pratico ed
effettivo ricordo della sua immolazione e morte per gli uomini: pro vobis [1].
Rispetto poi alla divinità di Gesù, a dimostrare che S.
Pietro non ne avesse un concetto inferiore a quello di S. Paolo, basta
ricordare: 1°, la sua confessione: «Tu sei il Cristo Figlio
di Dio vivo», cui tutti gli evangelisti consegnano come
espressione del più alto concetto che di Gesù aveva la
Chiesa cristiana al tempo in cui si pubblicavano i loro scritti,
cioè quando S. Paolo aveva già formulate le sue concezioni
cristologiche [2]; 2°,
l'espressione ἀρχηγὸν
τῆς ζωῆς: autore primordiale
della vita, in ambedue gli ordini, spirituale e fisico, giacchè
questo concetto San Pietro lo contrappone a quello di omicida
o distruttore della vita, detto di Barabba; 3°,
finalmente l'affermazione onde San Pietro dice di Gesù:
οὗτός ἐστι
πάντων
κύριος (Act. 10, 36). Se la
denominazione κύριος data da S. Paolo
al Signore ha valore antonomastico ed equivalente alla sua
divinità, perchè non deve averlo in bocca di S. Pietro con
di più l'aggiunta estensiva
πάντων?
15. Errori esegetici del Buonaiuti sul peccato originale.
Asserisce il Buonaiuti: «non si era mai insegnato (almeno a quel
che risulta dalla Bibbia) che nella colpa di Adamo era anche compresa
la colpa di tutti gli uomini»; perciò egli dichiara questa
dottrina «prettamente paolina», alla quale «giunse San
Paolo (solo dopo venti anni di ministero apostolico) dalla esaltazione
del Cristo» (pag. 459, 460). Cioè, secondo il Buonaiuti, se
S. Paolo, per il primo «giunse alla teoria del peccato originale,
da quel concetto sopra Gesù che non ebbero nè S. Pietro
nè gli altri apostoli, il domma del peccato originale non
appartiene al deposito della rivelazione cristiana primitiva
comunicata dal Signore ai suoi apostoli.
Invece, questa dottrina non è per nulla esclusiva di S. Paolo,
nè da lui formulata per la prima volta. In fatti, nella sua
lettera ai Romani, cioè ad una chiesa sino a quel tempo
interamente estranea ad ogni influsso paolino, egli la suppone
previamente conosciuta dai suoi lettori. Quello che egli vuol
dimostrare nel cap. 5 dell'epistola, non è l'esistenza
del peccato originale, ma che la giustizia o grazia di Dio
per la redenzione di Cristo si estende universalmente a tutti, e come
mezzo di dimostrazione si serve della comparazione tra Cristo e Adamo
nell'influsso di ambedue sulle rispettive posterità. «Come la colpa di Adamo —
dice egli — si propagò in
tutti, così la
giustizia di Cristo si comunica a
tutti» (Rom. 5, 12. 15. 18. 19). È evidente che qui
S. Paolo suppone conosciuta dai Romani la dottrina
dell'universalità della colpa in Adamo; perchè altrimenti
egli pretenderebbe illustrare un estremo sconosciuto per mezzo di un
altro parimente sconosciuto, che avrebbe richiesto di necessità
la medesima illustrazione. E quindi, molto prima dell'anno 58, in che
S. Paolo scriveva la sua epistola, era generale nella Chiesa la
credenza sul peccato originale, anche dove non era giunto
l'insegnamento di S. Paolo.
Il Buonaiuti, oltre che taccia di inesatta la versione latina (in di contenenza), ci dice, che
laddove il testo greco fa certa la «responsabilità fisica:
ripetendosi dal peccato originale la morte che tutti gli uomini
subiscono», la traduzione della Volgata «include anche la
responsabilità etica»: dando così ad intendere che
questa responsabilità etica, e quindi anche la vera nozione di
colpa sparisce se si toglie il senso continenziale di
ἐπί: in,
che sarebbe una pura aggiunta della tradizione.
Or bene, notiamo dapprima, come si prova che l'interprete latino dia
al suo in quo (Rom. 5, 12)
il senso continenziale, cioè: in Adamo? Anche in Philip. 3, 12,
l'interprete volta la frase ἐφ' ᾧ parimente in
quo, ed ivi e chiarissimo che il senso non è
continenziale ma causale o reduplicativo, cioè: quia
o quatenus.
Inoltre, la nozione di responsabilità non solo fisica ma etica,
cioè la nozione di vera colpa in ciascuno dei discendenti di
Adamo, per la loro partecipazione nel peccato del loro capo, risulta chiara dal verbo
ἥμαρτον, dalla concatenazione dei
membri del v. 12 (i quali non formano periodo perfetto, come
erroneamente suppone il Buonaiuti), e dalla ragione che si aggiunge
nei vv. 13.14, non abbastanza capita dal professore, a quanto pare. S.
Paolo dice nel v. 12 che la morte passa in tutti, in
quanto (ἐφ' ᾧ: על
אשר) tutti peccarono; cioè il fatto della universalità della morte
è una prova dell'universalità
della
colpa, per la vera partecipazione nella caduta di Adamo.
Questa correlazione era quello che intendeva provare S. Paolo nei vv.
13. 14, e lo fa nel modo seguente: «in verità
(γάρ), prima della legge (mosaica) vi furono nel mondo
molti peccati (personali), senza che da parte di Dio esistesse
imposizione tassativa di pena per essi, non essendo ancora venuta la
legge (mosaica). E nondimeno (ἀλλὰ) benchè
non esistesse una legge che imponesse pena ai peccati, la morte, in
qualità di pena (come
si vede nella Genesi), toccava a tutti,
anche in quel tempo in cui nessuno violava una legge positiva di Dio,
coma la violò Adamo (il comando di Dio di non mangiare
dell'albero proibito)». S. Paolo, secondo il suo costume, lascia
al lettore di trarre la conseguenza: dunque oltre i peccati personali
non castigati, ne esisteva un
altro del quale era pena la morte; e peccato di
tutti, poichè tutti ne soffrivano il castigo.
Inoltre, il prof. Buonaiuti suppone il peccato originale imputabile
in virtù della legge mosaica, il che importa disconoscere la
natura dell'uno e dell'altra. Egli disconosce del pari la differenza
tra la colpa o peccato personale ed
il peccato della natura. Da
siffatta ignoranza procedono le sue confusioni sulla imputabilità
fisica ed etica,
ed in conseguenza sulla colpabilità del peccato originale.
16. Errori esegetici del Buonaiuti intorno al decreto gerosolimitano degli Apostoli.
Il nostro professore discute e risolve la grave questione del valore
del mosaismo (pag. 212, 232-236) alla luce di principii erronei e
senza un serio e ponderato esame dei testi. 1.° Egli concede che
«la legge di Mosè era riguardata da Paolo come peccato [3], ed egli non aveva altro scopo che di
fugarla» (pag. 212): poi, per mitigare la crudezza di tale
espressione, si contenta di dire che essa rappresenta «il
complesso rigido, diremo così, della dottrina di S. Paolo, quale
può risultare nella astrazione dei critici, meglio che nella
pratica dell'Apostolo» (ivi). 2.° Nelle pagine 232-236, dopo
avere ammassato cinque obbiezioni[4]
contro la verità storica del decreto di Gerusalemme (Act. 15),
risponde: «È questione d'intendere più tosto la sua
reale portata nel tempo e l'importanza che gli diedero i suoi stessi
proponenti. Paolo certamente non ne fece alcun conto e forse anche
Pietro consentiva con lui». In fatti, «in tutto il decreto
gerosolimitano non c'è un filo della vera sostanza del
cristianesimo». Perciò S. Paolo non ne fa motto nelle sue
«vivaci lettere», e l'autore degli Atti lo registra in forma
solenne, perchè egli «è soprattutto preoccupato
dell'armonia delle chiese» (p. 235-236).
Or in tutto questo, l'egregio professore miscet
quadrata rotundis, confondendo ogni cosa. 1.° Le
espressioni di S. Paolo rappresentano, o no, la mente dell'Apostolo?
Se S. Paolo scrisse che «la legge è un peccato», e se
lo scopo del suo ministero fu estirparla, come si spiega non solo il
fatto degli Atti (21, 26), che, secondo i criterii del Buonaiuti,
potrebbe dirsi finzione o alterazione della storia fatta dall'autore
degli Atti, ma principalmente: 1 Cor. 7, 17. 18; 9, 20-22; Gal. 5, 6:
6, 15, ecc. nei quali passi si dice perentoriamente, che la
circoncisione è cosa indifferente e non impedisce la giustizia ed
il merito? Possono sussistere queste affermazioni di fronte a quelle
che assicurano essere un peccato la
circoncisione? Può conciliarsi questa tolleranza con lo zelo di
S. Paolo in estirpare quel rito?
La conciliazione non istà nel dire, come fa il Buonaiuti, che le
prime frasi sono esagerazione iperbolica o semplice astrazione; una
tale affermazione proviene dalla ignoranza della vera dottrina di S.
Paolo e dei Dodici. Secondo questa dottrina, siccome la circoncisione
giudaica era una protestazione della fede nel Riparatore
futuro, venuto questi, cessa il valore del rito giudaico in
quanto tale; ed il cristiano, che l'avesse praticato con tale spirito,
avrebbe negato a Cristo il carattere di Salvatore, in quanto avrebbe
professato di attenderne ancora la
venuta. Però, poteva darsi il caso che, per giusti
motivi, i giudei convertiti al cristianesimo, sebbene solo in
Gesù cercassero la loro giustificazione e salvezza, continuassero
a praticare la circoncisione, non con mente giudaica e come fonte di
giustizia, ma come un pio rito nazionale. Questo è il vero
spirito onde lo praticavano i fedeli della Chiesa primitiva
gerosolimitana, prima e dopo la conversione di Cornelio e il decreto
dello stesso Concilio apostolico [5].
Per tal modo viene chiaramente spiegata la conciliazione dei varii
passi di S. Paolo. Certamente, in Gal. 5, 2. 4, S. Paolo dice ai
Galati che se si circoncidono «perdono Cristo», «cadono
dallo stato di grazia o giustizia», ma non perchè la
circoncisione in sè fosse peccato, avendola praticata lo stesso
S. Paolo, circoncidendo Timoteo (Act. 16, 3); bensì perchè i
falsi missionarii giudaizzanti inducevano i Galati alla circoncisione
proponendola, come necessaria alla
salvezza (Act. 15, 2. 5; Gal. 2, 3-5). Fra coloro invece dove
«per la fede in Gesù e per il battesimo come protestazione
pratica di essa fede», e soltanto per questa via si cercava la
rigenerazione o «nuova creazione», importava poco che si
praticasse o no la circoncisione (Gal. 6, 15), non effettuandosi con
mente giudaica, nè come fonte di giustizia, ma solo come un pio
rito.
Nel dire poi che nel decreto apostolico «non c'è un filo
della vera sostanza del cristianesimo», il Buonaiuti mostra di
non aver compreso per nulla il contesto della storia del Concilio. Nel
decreto apostolico, frutto della discussione precedente e con essa
intimamente legato, devono distinguersi due parti: la prima, il tenore
delle prescrizioni positive; la seconda, il preambolo con i rispettivi
motivi e la risoluzione negativa. Le prescrizioni positive (Act. 15,
29) sono una disposizione disciplinare, diretta ad appianare, con un
termine medio innocuo, certe asprezze rituali inevitabili, in quella
prima espansione della fede, tra i giudei ed i gentili convertiti. Ma
non è questa la parte nè unica, nè principale del
decreto; d'importanza capitale è invece l'altra. La risoluzione,
negativa, protestava di «non voler prescrivere come necessaria
cosa alcuna ad eccezione dei quattro punti... ». I motivi sono
espressi nei discorsi di Pietro e di Giacomo. La controversia che si
agitava era questa: «è, o non è necessaria l'osservanza
del mosaismo, (la circoncisione e la legge) come requisito
indispensabile per la giustizia e salvezza?» (Act. 15, 2. 5. 6;
Gal. 2, 4. 5). S. Pietro parla per il primo, e dice: «la
giustizia e la salvezza possono ottenersi soltanto per la fede in
Gesù, e per niun modo (nè dai gentili, nè da noi
giudei) mediante la circoncisione e la legge; pretendere d'imporre il
mosaismo ai gentili come indispensabile alla giustizia e salvezza
è andare contro la dichiarazione espressa dello Spirito Santo e
tentare Dio» (Act. 15, 8-11). Indi parlò Giacomo, aderendo a
Pietro (Act. 15, 13-19), benchè suggerisse alcune osservanze, che
non erano però nè la circoncisione nè la legge, anzi,
come si è detto, espressamente afferma neppure richiedersi dagli
etnico-cristiani cotali pratiche. (v. 20). Proposti i motivi, segue la
risoluzione dell'assemblea (vv. 22-29), la quale nel preambolo (vv.
22-27) ripete il detto da Pietro e da Giacomo, in virtù di che
sentenzia «non essere per niun modo il mosaismo necessario alla
giustizia e alla salvezza».
Pertanto il decreto, nella sua parte principale, è l'espressione
più categorica dell'essenza intima del cristianesimo:
«l'unico principio giustificatore è la fede in Gesù
Cristo»; cioè tutto l'opposto di quello che afferma con
leggerezza il Buonaiuti!
Esposta così la storia del Decreto e la sua vera indole, non
è difficile sciogliere la difficoltà del Buonaiuti sul conto
che ne fecero S. Pietro e S. Paolo, e sulla questione se S. Paolo ne
abbia o no fatto menzione nelle sue epistole. Essendo autori del
decreto S. Pietro con i suoi compagni d'apostolato, e ispirandosi la
risoluzione principalmente nel discorso di S. Pietro, questi non
poteva riguardarlo come cosa indifferente. Molto meno S. Paolo,
giacchè era per l'appunto una solenne sanzione della sua tesi.
Per ciò stesso è falso che l'Apostolo non citi il decreto.
Le espressioni di S. Paolo, in Gal. 2, 3-9, non sono altro se non un
riflesso degli Atti e la medesima risoluzione del concilio contro le
pretensioni dei giudaizzanti, cioè 1'espressione fedele degli
antecedenti e della genesi del decreto.
Il non essere stato costretto Tito alla circoncisione, come narra S.
Paolo stesso, (Gal. 2, 3), suppone, sforzi in contrario (Act. 15, 5.
7); la ferma resistenza di S. Paolo (Gal. 2, 5) è il riflesso
della magna conquisitio
degli Atti (15, 7); ed il trionfo dell'Apostolo quando le
«colonne» stesse della Chiesa non modificarono per nulla il
suo evangelio, anzi l'approvarono (Gal. 2, 6. 7), non fa altro che
presentare in compendio i discorsi di Pietro e di Giacomo con la
risoluzione definitiva che ne seguì (Act. 15,7-29).
NOTE:
[1] La frase adoperata da S.
Paolo in 1a Cor. 11, 23, è esattamente
la stessa che in 1a Cor. 14, 3, dove
certamente esprime la derivazione tradizionale. Questa derivazione non
esclude, per sè, che ancheper rivelazione immediata da Cristo
avesse ricevuto notizia sulla Eucaristia; è certo però che,
nell'anno 57 quando scriveval'epistola, aveva sentito mille volte da
testimoni immediati la narrazione della vita del Signore. Il passo
Gal. 1, 12-24 dove insiste sul fatto di non aver eglicomunicato con i
Dodici, si riferisce al tempo anteriore alla sua prima predicazione in
Antiochia, verso l'anno 38.
[2] Non vi ha ragione per
supporre che le formole degli altri evangelisti, per es. Marco 8, 29:
«Tu es Christus»; Luc. 9, 20 «Christus Dei»
esprimano un concetto inferiore. S. Marco e S. Luca si contentano
della sola parola «Cristo», perchè, quando scrivevano i
loro rispettivi vangeli, i cristiani compendiavano in questa parola
tutte le eccellenze di Gesù, compresa la sua divinità;
appunto perchè proponevano la confessione di Pietro come
espressione del più alto concetto della Chiesa cristiana sopra
Cristo, e anche secondo l'opinione avversaria, in quel tempo,
posteriore alla concezione cristologica di S. Paolo, la Chiesa
professava la divinità di Gesù Cristo.
[3] Allude a Gal. 5, 2. 4.
[4] Sono le obiezioni del Renan (S. Paul, p. 92). Per il
Buonaiuti, il Renan è un ritardatario; perciò egli fa le
viste di confutarlo, ma... riducendo a nulla il decreto.
[5] Come si vede da ciò, i
proclamatori della necessità
della circoncisione e della legge (Act. 15, 2. 5) sono
espressamente sconfessati dagli Apostoli e Presbiteri (15, 10. 24) e
vengonochiamati perturbatori
(ibid.). Evidentemente si tratta di una dottrina sconosciuta finora
dagli Apostoli!
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