ERRORI VECCHI NELLA «STORIA DEI, CRISTIANESIMO» DEL PROF. E. BUONAIUTI (II)[*]
La Civiltà Cattolica anno 69°, vol. II, Roma 1918 pag. 48-58.
8. Il pensiero religioso di S. Paolo del tutto alieno dalla misteriosofia.
Non è guari difficile scoprire negli Scritti dell'Apostolo quali
fossero state le fonti della sua concezione religiosa. Abbiamo, nella
letteratura canonica del nuovo Testamento, tre frammenti
autobiografici di S. Paolo, della cui autenticità sostanziale
nessuno ha mosso mai il minimo dubbio. In essi ci è dato vedere
la psicologia religiosa dell'Apostolo dalla sua prima età sino
quasi al termine della sua vita, verso l'anno 63.
Nel primo, Act. 22, 1-3, ci racconta come dal focolare domestico
passò a Gerusalemme per esservi educato
(τεθραμμένος)
ai piedi di Gamaliele, e fece i primi passi nella vita pubblica al
tempo del martirio di S. Stefano. Nel secondo, Gal. 1, 11 - 2, 21,
dopo avere accennato la sua vita pubblica prima della conversione,
descrive partitamente il corso del suo ministero sino al tempo in che
scrive l'epistola, cioè verso l'anno 51 o 52. Il terzo, Philip.
3, 4-16, compie le notizie sulla sua vita apostolica sino all'anno 62
o 63. Tutti e tre questi documenti, comecchè diretti
dall'Apostolo a giustificare il suo
vangelo di fronte ai suoi avversari, ci rivelano non soltanto
quali furono durante la sua vita intera, segnatamente intorno alla sua
conversione, le cure del suo spirito in punto di religione, ma
altresì quali erano le accuse che gli opponevano i suoi emuli;
per tal modo essi ci apprestano una documentazione, benchè
indiretta, di prim'ordine, per giudicare della «rielaborazione
della sua esperienza religiosa» nelle proprie e genuine fonti,
lungi dalle quali va a cercarla il prof. Buonaiuti.
In tutti e tre i frammenti non si scopre la benchè minima
traccia d'influsso pagano misteriosofico nella sua psicologia
religiosa, nè verun accenno di difesa contro una siffatta
imputazione. Secondo il primo passo, durante il periodo di vita
anteriore alla conversione, nei suoi studii con Gamaliele, l'unica
sollecitudine del giovane Saulo era quella di formarsi un perfetto
rabbino. Dicendosi egli
τεθραμμένος, enutritus, educato in
Gerusalemme, questo periodo ci conduce sino alla prima giovinezza di
Saulo, ed in esso certamente il giovane scolaro non respirava se non
le idee e l'insegnamento delle scuole rabbiniche palestinesi,
contrarie all'estremo a qualsiasi ellenismo, principalmente a quello
religioso, essendo esse dirette quasi esclusivamente da farisei.
Terminati gli studi, Saulo si dimostra in pubblico come fariseo
fervente, che non ammette rivali nel zelo per la legge e per le
tradizioni giudaiche (Act. 22, 3; Gal. 1, 14). Or si giudichi da
ciò qual luogo avesse potuto tenere nel suo animo la
misteriosofia ellenista, proprio quando l'ellenismo non aveva in
oriente, ed in quel tempo appunto, nemico più accanito del
fariseismo [1].
Quello che si operò nel suo animo al tempo della sua conversione
e negli anni susseguenti, ce lo dice l'Apostolo negli altri due passi.
Nel primo, protesta, invocando Dio a testimonio, che il vangelo da lui
predicato non l'ha ricevuto dagli uomini, ma per rivelazione da
Gesù Cristo (Gal. 1, 12) aggiungendo però che esso è
identico a quello dei Dodici (Gal. 2, 6-9). Or questo evangelo dei
Dodici procedeva forse dalla misteriosofia ellenistica? Nell'altro
passo (Philip. 3, 4-16), dopo avere ricordato le sue glorie
gentilizie, confessando di averle tenute un tempo in alta stima,
aggiunge: «però queste cose che io per l'innanzi riputavo
guadagno, ora, possedendo Cristo, le stimo una perdita; anzi, tutto
ciò e qualsiasi altra gloria fuori di Cristo, tengo in conto
d'immondezza»! Donde si inferisce che la «rielaborazione
della sua esperienza religiosa» compiuta dall'Apostolo nella sua
conversione, fu una fortissima riscossa di tutto il suo essere per
gittare molto lontano dal suo spirito, nell'ordine religioso, ogni e
qualsiasi particella che potesse essere estranea a Cristo ed alle
fonti genuine del solo cristianesimo. E se egli ciò fece rispetto
al criterio giudaico, crasso e carnale, nell'interpretazione del
vecchio Testamento, quanto più l'avrebbe fatto rispetto a
qualsiasi altra parte d'origine profana e tanto abietta ai suoi occhi,
come la misteriosofia ellenistica, se, esaminando il suo interno, vi
avesse scoperto traccia di siffatta abominazione! L'avversione
profonda che suscitava in S. Paolo il gentilesimo come istituzione
religioso-morale appare in tutto il suo rilievo, nei passi: Rom. 1,
18-32; I Cor. 10, 20; 12, 2, ecc. Or noi sapremmo grado ai signori
sostenitori del sincretismo paolino, ed al prof. Buonaiuti che ricalca
e sopravanza le loro orme, se ci indicassero la parte onde potè
trarre argomento per la «rielaborazione della sua esperienza
religiosa» tra quello che egli dice dei pervertimenti pagani,
singolarmente nel primo passo citato della sua lettera ai romani! Or
è indubitato che ivi appunto l'Apostolo intende presentarci la
parte più eletta del paganesimo: filosofi, magistrati,
legislatori, sacerdoti. Colui che descrive con sì foschi colori
le istituzioni pagane, poteva mai sentirsi inclinato a prendere da
esse proprio il principio fecondatore delle sue più auguste
concezioni, come osano sostenere o insinuare quei signori critici! Il
paradosso, il sacrilegio ed il ridicolo si danno la mano nelle teorie
di costoro!
Non si scorge neanche, nei citati frammenti autobiografici, nessun
accenno di difesa contro un'accusa che necessariamente non sarebbe
potuta mancare nell'ipotesi del Buonaiuti e dei suoi maestri nella
critica. Gli avversari di S. Paolo venivano dal fior fiore del
fariseismo (Act. 6, 7; 11, 1; 15, 2. 5); or se questi gli
rinfacciavano la sua condizione avventizia nel cristianesimo ed il non
avere avuto fonti domestiche d'informazione sul vangelo autentico in
confronto con i Dodici, non è difficile congetturare che ben alto
avrebbero lanciato il grido d'indignazione e designato alla pubblica
esecrazione la sua dottrina, se vi avessero scoperto come principale
nucleo e fondamento il fermento pagano che suppongono i nostri
critici. La sola grave accusa che possano fargli i suoi più
furenti nemici non è altra da questa: «predicare egli ai
giudei della Diaspora l'abbandono del mosaismo» (Act. 21, 21.
28); non mai fanno il minimo cenno dell'abominabile miscuglio di
simboli pagani col vangelo o con la legge.
9. Le fonti genuine della dottrina di S. Paolo.
Ma vi ha di più. S. Paolo non si contenta di manifestarci la
sua psicologia religiosa, le sue effusioni cristiane e la sua
avversione per qualunque cosa fosse, sotto il rispetto religioso, in
qualsiasi modo, aliena dal puro pensiero e sentimento cristiano; ma ci
dice in chiari termini ed espressamente quali furono le fonti onde
attinse le sue dottrine.
1.° Nel luogo già citato, Gal. 1, 11-12, protesta, come
vedemmo, e conferma le sue asserzioni con solenne giuramento, (1, 20)
che il vangelo, da lui predicato tra le genti, non l'ha ricevuto dagli
uomini, ma per rivelazione divina [2].
Potrebbe l'Apostolo fare un'affermazione così categorica e
solenne, se nel suo sistema religioso gli elementi misteriosofici
avessero avuto quella parte che suppone il Buonaiuti con i suoi
maestri? Secondo questi, siffatti elementi non sono secondarii:
secondo il Buonaiuti costituiscono il midollo della dottrina di Paolo
nei dommi più vitali; secondo il Reitzenstein, si manifestano
«in imagini di mirabile profondità» (pag. 51). Or
domandiamo: avrebbe potuto l'Apostolo tenere e dare siffatti elementi
come rivelazione divina con esclusione di qualsiasi infiltrazione
umana, senza essere sfacciatamente mentitore e spergiuro, o
grossolanamente illuso?
2.° Secondo la dottrina esposta da S. Paolo a principio della
sua epistola ai Romani (1, 2. 3), il vangelo in istoria
ed il vangelo in promessa
sono due fasi di una identica rivelazione: il vangelo predicato
dall'Apostolo come realtà ora
compiuta in Gesù, nella sua persona, missione, ufficii, è il
medesimo vangelo, promesso già da Dio per i suoi profeti sul Figliuolo suo. Ecco una seconda
fonte della concezione paolina; giacchè non poteva l'Apostolo non
cercare ispirazione sopra Cristo ad una fonte che egli riconosceva
divina, la quale gli apprestava da parte del medesimo Dio quanto
avrebbe potuto desiderare sulla persona augusta di Gesù e sulla
sua missione riparatrice nel mondo. In effetto, l'intera misteriologia
di S. Paolo intorno a Gesù non riconosce altra origine da questa.
La sua concezione sulla redenzione del genere umano compiuta
dall'Uomo-Dio, che muore e risuscita per condurre a termine questa
impresa, si incontra in tutti i suoi particolari nei profeti,
segnatamente in Isaia, 49, 4-8, e con maggiore ampiezza in 52, 13 -
53, 12, dove il profeta ci dà la dottrina intera sulla redenzione
per la morte espiatoria e vicaria con i suoi rispettivi frutti nei
credenti. Ivi Dio carica sul suo Servo le iniquità di tutti gli
uomini (53,6); ed il Servo accetta questo carico (53, 4), offrendosi
volontariamente alla morte (53, 7. 10. 12); con le sue ferite e con la
sua morte ricevono gli uomini salvezza (53, 5); Egli li lava e
giustifica (52, 15: 53, 11). Con la sua morte non termina l'opera
salvatrice di lui: compito il suo sacrifizio, vede fruttificare nelle
sue mani l'opera di Dio (53, 10); e molti restano incorporati
a Lui nel corso dei secoli (53, 8. 10), il che vuol dire che
egli vive dopo la sua immolazione, rimanendogli una gloria postuma
perpetua, la quale non è se non quella susseguente alla sua
risurrezione.
Potrebbe opporsi, che nelle descrizioni dei passi citati di Isaia non
appare la divinità del
Servo. La risposta è semplice: l'identità di questo
personaggio col sovrano di 9, 6-7 ed 11, 1-13 è indubitata, e non
è meno indubitata la divinità di questo sovrano in 9, 6.
Nessuno di questi tratti può dirsi originato dall'ellenismo,
giacchè, anche per concessione dei critici più audaci,
«i poemi 42, 1-4; 49, 1-6: 50, 4-9: 52, 13 - 53, 12 sono del
medesimo autore, il quale è più antico dell'autore di 55-66;
e questi, a sua volta, è anteriore a Nehemia» [3]: il che importa che i tratti anzidetti precedono
di più d'un secolo e mezzo i tempi di Alessandro.
Che tutta la cristologia di S. Paolo sia presa dall'antico
Testamento, (non escludendo, com'è chiaro, 1 Cor. 15, 3-5; e
segnatamente, rispetto alla Passione ed Eucaristia, 1 Cor. 11, 23, e
le illustrazioni della storia evangelica per bocca dei discepoli di
Gesù) lo dichiara in termini espressi lo stesso S. Paolo, negando
qualsiasi influsso di fonti estranee, in quel discorso appunto
(innanzi ad Agrippa), dove il Buonaiuti pretende scoprire «lo
stadio della sua compiuta evoluzione» misteriosofica, ed il
«segno più chiaro
di quella fusione che operò Paolo delle credenze mistiche nel
cristianesimo» il quale segno è «l'identificazione
della luce con Dio, e delle tenebre con Satana» (pag. 169-170).
In questo discorso, S. Paolo dichiara espressamente di
«continuare sino al presente giorno (sin da quando, alla sua
conversione, ricevette la missione di predicare il vangelo a tutte le
genti) a fare testimonianza innanzi ai piccoli ed ai grandi, senza
proferire
cosa alcuna nella sua predicazione, fuori
di quello che Mosè ed i profeti avevano dichiarato
doversi compiere nel futuro» (Act. 26, 22). Per quanto spetta la
doppia imagine del regno o
dominio delle tenebre e della luce ad esprimere la condizione dei
gentili prima e dopo il vangelo, essa è familiarissima ad Isaia
(8, 20; 9, 2; 42, 6. 7. 49, 6. 9: 60, 1-3; ecc.). La identificazione
della luce con Dio, e delle tenebre con Satana, che sarebbe contenuta
nel discorso di S. Paolo innanzi Agrippa, non si trova punto nel detto
discorso, ma si legge soltanto, asserita gratuitamente nel testo delle
lezioni del prof. Buonaiuti. La relazione tra Dio o il Messia e la
luce, e tra Satana e le tenebre, non è, nella concezione paolina,
relazione di identità,
ma di dominio o principato.
10. Errori dogmatici del Buonaiuti sulla divina rivelazione.
Abbiamo visto sinora, per sommi capi, quale sia il criterio onde il
prof. Buonaiuti s'ispira nel dettare le sue lezioni. Esaminiamo ora le
dottrine, ivi, più o meno apertamente, professate. A dir vero,
pochissimo di buono se ne può raccogliere, laddove l'erroneo e
pernicioso vi domina da un capo all'altro.
Rispetto alla natura della
rivelazione divina, notiamo quello che dice il Buonaiuti, a
pag. 547: «Come è chiaro, l'insegnamento di San Paolo è
tutta una rivelazione spirituale che si può comprendere solamente
immedesimandoci della sua esperienza». Quale sia il modo per
ottenere una siffatta «immedesimazione», egli l'aveva
dichiarato sin da principio: per accostarci «vicino all'esaltato
misticismo di Paolo» è necessario «uscire dalle vie e
valutazioni consuete», e volgerci ad «esplorare e valutare
quei documenti nuovi riguardanti le antiche religioni dei misteri, che
una luce sì viva son capaci di riverberare sulla dogmatica
paolina» (pag. 11). Tale è la rivelazione
con le rispettive sue fonti, che il Buonaiuti ammette negli scritti di
S. Paolo.
Si confronti adesso questo suo concetto della rivelazione
con la dottrina della Chiesa. Secondo il Concilio
Vaticano, colui che ci parla nella rivelazione cristiana è
Dio stesso, e non per il testimonio delle creature o di qualsiasi
altro mezzo di ordine naturale accessibile a tutti mediante
l'applicazione delle facoltà naturali, cioè per la sua
parola detta virtuale, ma
per via soprannaturale, per mezzo di coloro che Egli costituì
liberamente come organi di comunicazioni eccezionali che Egli si
degnò di fare gratuitamente al genere umano, e sopra ogni legge,
diritto o esigenza della natura; con la sua parola formale:
«Deus loquens olim
Patribus in Prophetis,
locutus est nobis in Filio»
[4]. [«Iddio
che parlò un tempo ai padri ne'
profeti, ha parlato a noi nel
Figliuolo (cfr. Hebr. I, 1-2.)» N.d.R.]
È vero bensì che la rivelazione di Gesù, come Egli
stesso dichiarò, in certi punti oscuri rispetto alla
capacità dei suoi discepoli durante la sua predicazione, sarebbe
stata compiuta da un rivelatore complementare; però chi fosse
questo rivelatore, oltre il medesimo Gesù, ce lo dice S. Paolo.
Il rivelatore che a lui ed ai suoi compagni di apostolato scoprì
gli arcani dell'evangelo, fu «lo Spirito divino, l'unico che
può scrutare le più intime profondità dell'essere e
della Sapienza di Dio» [5].
Secondo il Buonaiuti, chi ci parla nella «rivelazione
spirituale» di S. Paolo, e per mezzo di lui, è la
misteriosofia ellenistica, con i suoi riti, i quali gli apprestarono
gli elementi più scelti di quel simbolismo, onde egli adorna la
persona, la morte ed il trionfo di Cristo, ed in virtù dei quali
la morte ed il trionfo di Cristo contengono per noi una virtù
salvatrice (pag. 413, 450).
Secondo la dottrina cattolica, le fonti dell'interpretazione
autentica ed altresì scientifica della Bibbia e, per conseguenza,
anche di S. Paolo, sono: innanzi tutto, il magistero dottrinale della
Chiesa «cui appartiene giudicare del vero senso ed
interpretazione delle Sante Scritture» [6];
indi «il consenso dei Padri» [7]
ed il «senso ecclesiastico tradizionale». Secondo il
Buonaiuti, invece, per comprendere S. Paolo, bisogna allontanarsi
dalle «vie e valutazioni consuete», cioè dalle
decisioni della Chiesa, dal consenso dei Padri e dal senso
tradizionale, e volgersi allo studio della misteriosofia ellenistica,
esposta e commentata dagli scrittori eterodossi più esagerati.
Riguardo all'ampiezza, il
prof. Buonaiuti sminuisce e riduce la rivelazione sotto due aspetti,
diretto ed indiretto. Il diretto concerne il contenuto fondamentale
della rivelazione nello stesso simbolo apostolico. Già abbiamo
visto come egli distribuisce tra Cristo e S. Paolo la rivelazione
cristiana, in modo che, dei dodici articoli, solo due sarebbero
insegnamenti di Cristo: il primo «credo in Dio onnipotente,
creatore del cielo e della terra» (senza l'accenno alla
Trinità: Dio Padre),
ed il settimo «verrà a giudicare» (o regnare). La
Chiesa ha insegnato sempre che il simbolo, nel suo contenuto [8], è tutto ed intero rivelazione personale di
Gesù e suo immediato insegnamento, conforme dichiara il Concilio
Tridentino nel proemio al decreto sul Canone (sess. 4); gli Apostoli
sono promulgatori e non creatori, nè in tutto nè in parte,
del simbolo.
Sotto l'aspetto indiretto, il Buonaiuti riduce il numero dei libri
canonici. Sebbene, a pag. 44, sembri che egli ammetta i ventisette
libri del Nuovo Testamento, a pag. 121 accetta le conclusioni della
critica, secondo la quale le lettere pastorali
«derivano da un nucleo centrale paolino; in seguito
abbondantemente sviluppato». Ora in questa ipotesi, sostenuta
dalla critica eterodossa seguita dal Buonaiuti, la quale suppone che
la gerarchia sia di origine recente e sconosciuta nei tempi
apostolici, le lettere pastorali sarebbero, nella quasi totalità
del loro contenuto, posteriori a quei tempi, e quindi mancherebbe loro
una condizione essenziale per la canonicità, cioè di essere
state «consegnate dagli Apostoli alla Chiesa come libri sacri ed
ispirati» [9]. Come le
lettere pastorali, anche la lettera agli Ebrei non sarebbe canonica,
secondo il Buonaiuti, per la medesima ragione che «la critica
unanime, si rifiuta di collocarla nell'epoca della vita di S.
Paolo» (pag. 118). Lo stesso dicasi di una gran parte del libro
degli Atti, per detta del Buonaiuti, «rimaneggiato sul tramonto
del primo secolo, utilizzandosi Giuseppe Flavio e adattandosi i
discorsi specialmente alla progredita mentalità cristiana»
(pag. 111).
Si noti di passaggio la disinvoltura, onde il Buonaiuti parla di critica unanime, cioè della
critica protestante e razionalista, come della sola esistente, e non
degna neanche d'un solo cenno i critici cattolici!
11. Vecchio errore modernista del Buonaiuti intorno all'assenso della fede.
Secondo la dottrina cattolica,
la fede è l'assenso della mente, sotto l'influsso della grazia,
alla verità rivelata da Dio [10].
Il credente non pone nulla di suo nell'oggetto rivelato nè
nell'atto rivelatore. Egli non fa altro se non riceverli umilmente
ed abbracciarli con l'adesione intellettuale sotto l'impero della
volontà, poichè l'atto di fede è essenzialmente
libero, per[ci]ò senza che il credente vi
mescoli da parte sua nessuna cooperazione efficiente nè nella
manifestazione della verità rivelata, nè molto meno nella
produzione dell'oggetto della rivelazione. Ambedue queste condizioni
devono adempirsi non soltanto nella fede di coloro che ricevono la
rivelazione, mediante gl'istrumenti di che Dio si serve per
promulgarla, ma del pari negli stessi profeti ed apostoli, organi ed
interpreti della rivelazione divina. Anche essi ricevono,
non creano nè in
tutto nè in parte l'oggetto rivelato; essi non fanno se non
ascoltarlo e trasmetterlo, potendo dire con Isaia: «quello che
ho udito della bocca di Dio annunzio a voi» [11].
Per l'opposto, il prof. Buonaiuti, tutte le volte che parla del
possesso dell'oggetto rivelato, spiega questo possesso, in coloro che
sono organi della rivelazione, come loro propria «esperienza
religiosa», e nei semplici fedeli, come «assimilazione»
o «immedesimazione» di tale «esperienza
religiosa». Il Buonaiuti, evitando studiosamente la terminologia
cattolica tradizionale, dà a quei termini da lui adoperati lo
stesso valore e significato che gli danno gli scrittori onde si ispira
e che sono gl'inventori e patrocinatori di detti termini, cioè i protestanti ed i modernisti; i
quali non ammettono che la fede sia un assenso
della mente, ma solo un sentimento,
un'impressione insieme ed un'elaborazione propria, la quale non si
restringe a ricevere ed abbracciare, ma si estende a produrre l'atto
rivelatore ed il proprio oggetto.
12. Il Buonaiuti nega l'infallibilità e l'ispirazione della S. Scrittura.
Il prof. Buonaiuti asserisce che gli Atti degli apostoli e le
epistole di S. Paolo, al pari di «tutti i documenti del
cristianesimo primitivo», non sono «documenti storici».
Propriamente egli nega che siano «puri documenti storici»;
ma, con quel che soggiunge dichiara apertamente il senso della parola
puri. Questa non significa
per lui che gli evangeli, per es., hanno per oggetto, oltre che dare
notizia di Gesù, anche istruire ed edificare (cioè non sono
solamente storia ma anche insegnamento di Gesù), il che è
vero; ma significa che «per i fini particolari di quella
propaganda cristiana che sta tanto a cuore ai rispettivi autori»,
vi si sacrificò o alterò la verità storica, il che
è falso [12]. Per il
Buonaiuti dunque, al pari degli Evangeli, anche gli Atti degli
apostoli e le lettere di S. Paolo non sono «documenti
storici» interamente degni di fede, appunto perchè
contengono alterazioni della verità, dovute ai «fini
particolari dei rispettivi autori». Infatti, come questa
circostanza dei «fini particolari» conduce il Buonaiuti ad
«usare le più circospette cautele nel ricavare da lui (S.
Luca, autore degli Atti) indicazioni storiche» (pag. 107),
cioè rende sospetta di falsificazione o almeno di alterazione
della verità storica la narrazione degli Atti, così del pari
la stessa circostanza dei «fini particolari» alla quale
«soggiacciono tutti i documenti del cristianesimo primitivo»
renderà ugualmente sospette le narrazioni dei vangeli.
È necessario porre mente alla estrema gravità di queste
asserzioni; dalle quali segue che, nella storia della Passione e nel
processo di Gesù, in luogo di Gesù vittima e di Giuda
traditore, corrispondenti ai fini particolari degli autori, avremo
forse da ritenere Giuda, come un patriota e Gesù come un
imprudente!...
In conformità di questi principii, il Buonaiuti, d'accordo col
Baur, stabilisce che: «la critica dei testi sacri si dovrà
fare spingendoci al di là degli ambienti particolari che ce li
tramandarono, perchè, come in quelli furono elementi vitali, non
potevano sottrarsi ai fenomeni propri della vita di ogni organismo
sociale» (pag. 36).
Siffatti principii ed assiomi critici distruggono dalle fondamenta
l'infallibilità e l'ispirazione divina della Bibbia. In effetto,
se negli scrittori canonici, come in qualsiasi altro, può e deve
sospettarsi parzialità tendenziosa, volontaria o involontaria,
che metta in dubbio la verità obiettiva del contenuto, è
evidente che nella composizione di tali libri non potè
intervenire una azione divina che li costituisse parola
di Dio; perchè questa non può contenere in sè,
nè associarsi errore alcuno, ancorchè proveniente dal
cooperatore strumentale umano.
Nel fatto, il Buonaiuti trova ed ammette, di continuo, contraddizioni
ed errori d'ogni fatta, ritocchi strani al testo primitivo che ne
rimane sfigurato, specialmente in S. Luca, cui egli, come l'eretico
Marcione, sembra avere scelto di preferenza per mutilarlo e farne
scempio.
NOTE:
[2] A ciò il Buonaiuti
potrebbe osservare, che v'è buon tratto di tempo fra la lettera
ai Galati e la lettera ai Romani, durante il quale Paolo avrebbe
potuto svolgere le sue concezioni, come vuole fra altri il Sabatier.
Rispondiamo che l'epistola ai Galati non potè essere scritta nel
51 da S. Paolo, senza che egli possedesse perfettamente svolto ed
ordinato nella mente il sistema intero della giustificazione per il
battesimo e per i suoi effetti, come egli lo descrive nei cap. 5-8
dell'epistola ai Romani, sette anni più tardi, nella quale trova
il Sabatier (L'Apôtre S. Paul,
1912) il supremo grado di svolgimento nella concezione dell'Apostolo.
L'espressione: Χριστῷ
συνεσταύρωμαι·
ζῶ
δὲ οὐκέτι
ἐγὼ, ζῇ δὲ ἐν
ἐμοὶ
Χριστός: «sono crocifisso con
Cristo; e vivo non già io, ma colui che vive in me è
Cristo», è una formola di meravigliosa concisione, dove
compendia l'intero processo giustificativo, svolto in Rom. 5-8. La
«concrocifissione con Cristo» che ha per scioglimento
l'acquisto di una nuova vita, il cui principio non è già il
giustificato, ma Cristo, comprende l'incorporazione con Cristo in
croce per seguire la sua stessa sorte, nella morte, sepoltura e
risurrezione, ad una vita animata dallo spirito infuso, emanazione di
Cristo, il quale come capo la diffonde nelle sue membra, comunicando
loro la sua propria vita. E qual è il rito concreto mediante il
quale, secondo l'epistola ai Galati, come in quella ai Romani, il
fedele si incorpora misticamente con Cristo? È il battesimo (Gal.
3, 27-29), onde sorge l'uomo nuovo
(Rom. 6, 6; 7), quella nuova
creazione, καινὴ
κτίσις, (Gal. 6, 15) la quale, come creazione o creatura
cioè uomo, non è
destinata a rimanere inerte, ma a produrre atti vitali; e, come nuova, non può avere qual
principio la vecchia concupiscenza, ma la giustizia.
[3] Duhm.
Das Buch Jesaia, 1914, pag.
XV. Il Duhm passa fra i protestanti come il più valente
interprete d'Isaia ai nostri giorni.
[5] I Cor., 2, 10-11.
[6] Conc. Trid. sess. 4. Decr. de
edit. et usu libr.
[7] Ibid.
[8] Benchè non come formulario,
cioè nella forma in che si recita nel catechismo. Il simbolo
è lo schema o compendio della predicazione dommatica di Gesù
contenuta nei Vangeli e negli insegnamenti orali di Gesù agli
Apostoli: tutto questo complesso è insegnamento personale di
Gesù.
[10] Ibid. cap. 3.
[11] Is. 21, 10.
[12] Riportiamo le parole del
Buonaiuti: «Noi dobbiamo tener sempre presente il fatto che
nè gli uni nè le altre (gli Atti e le lettere paoline) sono
dei puri documenti storici: soggiacciono anch'essi, come tutti i
documenti del cristianesimo primitivo, ai fini particolari di quella
propaganda cristiana, che sta tanto a cuore ai rispettivi autori»
pag. 108.
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