LA REGOLA FILOSOFICA DI SUA SANTITÀ LEONE P. P. XIII. PROPOSTA NELLA ENCICLICA AETERNI PATRIS (V) [1]
R.P. Giovanni Cornoldi d.C.d.G.
La Civiltà Cattolica anno XXX, serie X, vol. XII (fasc. 707, 25 novembre 1879), Firenze 1879 pag. 529-547.
IV.
Seguita dei conseguenti
L'esecuzione della Regola Filosofica
Il Santo Padre Leone XIII comunicò a tutti i Vescovi della
Chiesa l'idea dell'insegnamento filosofico cristiano. Ciò fu
necessario; ma non è tutto. Per certo fu gran cosa che
Michelangelo abbia concepita l'idea della statua del Mosè,
nè questa avrebbe avuto l'essere senza l'esemplare ideale; ma
ciò che sopra tutto importava era l'attuazione nel marmo
dell'idea stessa. La società non può essere guarita colle
sole idee dei rimedii acconci a ridonarle la sanità; sì
dalla applicazione dei rimedii. Per la quale cosa il medesimo Santo
Padre eccitò i Vescovi e, per essi, tutti quelli che sono sotto
la loro giurisdizione, a porre i mezzi opportuni per incarnare nel
fatto l'ideato filosofico insegnamento. Quindi essi certamente con
ogni studio, costanza, lealtà, franchezza e fortezza si
adopreranno a tale scopo. Dicevamo studio,
perchè dalle cose discorse ben si vede che non è cosa
leggiera ordinare l'insegnamento della cristiana filosofia, ma grave
ed intricata: costanza,
perchè, qualora que' che debbono invigilare chiudano o torcano
l'occhio, naturalmente l'insegnamento si guasterà; lealtà,
perchè questi non debbono aggiustare l'idea del Papa alla
propria, alterandola e mutandola, ma viceversa la propria a quella del
Papa: franchezza,
perchè se per ciò fare fosse necessario opporsi ad una tal
quale pubblica opinione, comechè falsa, l'umano riguardo, anche
in persone altolocate e per dignità eccellenti, si risente:
finalmente fortezza,
mercecchè avvisiamo che assai spesso si richiederà più
forza per togliere i moderni pregiudizii in fatto di scienza e per
usare tutti que' mezzi che sono necessarii ad eseguire la Regola
Filosofica, di quello che sia a compiere imprese che paiono
grandi e di difficile riuscimento nell'ordine fisico o materiale.
E poichè ci accadde di far menzione della statua del Mosè,
osserviamo che a far sì che l'idea di Michelangelo fosse recata
ad atto perfetto, due cose erano necessarie: il soggetto acconcio,
ossia il marmo, e la mano dell'artefice, la quale con perizia
adoperasse lo scalpello. Nel caso nostro il soggetto sono i giovani,
ai quali vuolsi insegnare filosofia: e di questo soggetto diremo
soltanto due cose, l'una che riguarda l'averlo alla mano, l'altra che
ha rispetto alla sua indole. È un lagrimevole fatto, e che torna
a ruina della società tutta quanta, che la massima parte della
gioventù sfugga alla materna cura della Chiesa, e sia
ammaestrata, in moltissimi luoghi, da professori materialisti ed atei,
i quali reputano l'apice del progresso intellettuale l'emanciparsi non
solo dalla fede, ma dai principii sovrani dell'umana ragione. Il
difetto di libertà d'insegnamento, voluto, con manifestissima
contraddizione, dai gridatori di libertà di pensiero e di parola,
è causa di tanto male, ma non è causa piena. Ciò che a
questa causa manca viene da altra parte; e noi che vogliamo per
pubblico bene parlar franco, nè approvare macchie che imbrattano
ciò che pure, per altri capi, merita grande lode, diremo schietto
il nostro pensiero. A render piena quella causa supplisce il timore e
la lentezza dei buoni cattolici. I quali quanto pronti a far voti per
ottenere la totale libertà d'insegnamento (e questi voti sono
commendevolissimi, da eccitarsi, e da moltiplicarsi), altrettanto si
sono fin qui, in molti luoghi, mostrati lenti nell'approfittarsi di
quel poco di libertà, che pur vi è, rispetto
all'insegnamento stesso. Altri gl'incolpa non di lentezza ma di
strettezza soverchia di mano: noi no. Infatti abbiamo veduto che per
opere di carità, per funzioni ecclesiastiche, per pellegrinaggi,
per giubilei, e per tante dimostrazioni di affetto e di compassione
alla gloriosa e santa memoria del sommo Pontefice Pio IX (fino a
presentargli in oro quella doppia catena onde fu avvinto san Pietro) i
buoni cattolici italiani non vennero meno al dovere, ed alle
convenienze; si mostrarono, nella pia generosità, veri figliuoli
dei loro maggiori, e veri fratelli dei cattolici delle altre nazioni
europee, che in fatto di generosità diedero, a' dì nostri,
magnanime prove. Tuttavia non bene e praticamente ricordevoli di
quell'haec oportuit facere et illa
non omittere [Matth. XXIII, 23: «Queste cose era
d'uopo di fare, e quelle non omettere.» N.d.R.],
non fissarono tutta la loro attenzione sopra le scuole che si potevano
e che si dovevano aprire per evitare un gran male e per fare un gran
bene. Ma il Papa mandatoci da Dio per insegnarci praticamente che la
sapienza reca a salute i popoli, non contento di avere con la sua
parola illuminata, in questo proposito, la nostra mente e accesoci in
cuore un santo zelo, ci viene dando tale un esempio in Roma che, per
certo, sarà fecondo di eletti frutti. Per lo che abbiamo buona
ragione da sperare che numerosissime scuole pei laici giovinetti si
apriranno, e che pure a loro, quanto
e dove si potrà, si darà accesso nei Seminarii, per
sottrarli alle seduzioni che si hanno nelle scuole poco o nulla
cristiane, e per informarli a quella soda e sincera dottrina,
ch'è voluta dal Santo Padre. Da lui che tanto diede e dà,
anche del suo privato peculio, per aprire in Roma scuole cattoliche,
dobbiamo imparare che assai spesso è più cara a Dio la
elemosina che si fa per infondere nella gioventù la sana dottrina
e per sottrarla all'errore, che per rendere più maestoso il culto
esterno, comechè questo sia a Dio tanto accetto.
Prudentissima tattica la è
fare ciò che il nemico non vorrebbe che si facesse, e non fare
ciò ch'ei vorrebbe. Ora e chi non sa che le sètte
anticristiane, sopra tutto, tendono a sottrarre alla educazione ed
alla cattolica istruzione la gioventù? Appunto perchè la
Compagnia di Gesù nel secolo passato avea aperta in
numerosissime scuole di Europa la fonte della pietà sincera e
della soda scienza ad innumerabili giovanotti, le sètte le
suscitarono contro quella procella ch'è ben nota alla storia; e
se in tempi a noi più vicini, ed al presente, fremono le stesse
sètte contro la medesima Compagnia, il motivo precipuo non
è niente affatto l'apostolico ministero della predicazione,
delle missioni entro e fuori di Europa, ma sì l'essere ordinata
per sua vocazione alla educazione ed alla istruzione della
gioventù. Lo si vide pochi anni or sono quando il
governo liberale della Spagna volle si chiudessero tutti i Collegi
della Compagnia; ma pur fece eccezione ad uno solo, ove preparassersi
i giovani alle lontane missioni dei possedimenti spagnuoli, cui voleva
che i religiosi della stessa Compagnia seguitassero a coltivare. Ed
ora l'articolo settimo della legge Ferry, in Francia, ne è una
solenne e nuova conferma. Conoscendosi aduuque che non vi ha cosa alle
sètte più detestata che le scuole cattoliche, sopra ogni
altra cosa dov'essere a cuore dei sinceri cattolici, aprire quante
più si possono scuole; ed è certo che non potranno far cosa
più cara al Papa di quello che sia aggiugnere ai voti fatti e da
farsi per ottenere libertà piena d'insegnamento, un operare
attuoso forte ed efficace, per quanto si può nelle circostanze
presenti, per usufruttuare quella libertà che pur c'è.
Ciò detto rispetto all'acquistare ampio soggetto per imprimervi
con la educazione ed istruzione la forma della cristiana filosofia
intesa dal Santo Padre, veniamo a spendere due parole sull'indole del
soggetto stesso.
Alcuni professori all'attuazione dell'insegnamento secondo la
dottrina dell'Aquinate pretessero difficoltà tolte eziandio
dall'indole o dalle tendenze acquisite (a cagione delle presenti
circostanze) dei giovani discepoli. Perchè da gran tempo s'ebbe a
costume, quasi da per tutto, di non mai nominare l'Aquinate tra
filosofi (gli si concedeva la presidenza onoraria
tra i soli teologi); perchè o non si volevano ricordate,
o solo rammentate con disprezzo, le dottrine fondamentali della
filosofia scolastica; perchè si era diffuso largamente il vezzo
di compatire a' vecchi scolastici,
a quei buoni credenzoni, a'
que' barbogi che iurabant in verba
magistri; [= giuravano
sulle parole del maestro (cfr. Orazio, Epist., I, 1, 14),
ritenendolo infallibile. N.d.R.]
alcuni si danno a credere che gli scolari avrebbero in dispetto un
professore che volesse loro insegnare la scolastica filosofia. La
difficoltà è nulla o, tutt'al più, un pretesto. Come il
marmo che si acconciava ad essere la stupenda effigie di Mosè
sotto i ben aggiustati colpi della mano di Michelangelo, egualmente si
sarebbe prestato ad essere uno sproporzionato satiro sotto lo
scalpello d'inesperto scultore; così la gioventù si acconcia
a ricevere la forma di eletta, di mediocre, di cattiva e di pessima
filosofia. Noi veggiamo
amabili, ingenui, innocenti, pii, cari giovinetti, in breve tempo,
frequentando certe scuole, cangiarsi e divenire disonesti, viziosi,
spudorati, superbi, epicurei, atei, settarii, piante velenose
cresciute a danno della società, cui preparano le cause di
dolori, di lagrime, di vituperii, di eccidii. Sortirono pessima
educazione ed istruzione: ebbero cattivi maestri. Per
converso veggiamo uscire da altre scuole giovani fermi nei retti
principii della religione e della morale, acuti nel filosofare, quanto
addottrinati in iscienza, altrettanto ricchi di quella modestia onde
scaturisce l'amabilità e la socievolezza, speranze liete della
Chiesa e della patria. Ma i secondi avrebbono probabilmente fatta la
infelice riuscita dei primi, sotto a' maestri di costoro e con la loro
educazione ed istruzione; e in contraria ipotesi i primi sarebbono
ritornati altrettanto cari che i secondi alle braccia dei genitori,
alla convivenza dei probi cittadini, alle speranze della patria e
della Chiesa.
Tuttavia vuolsi ricordare che l'effetto sempre richiede una causa a
sè proporzionata: perciò il
cattivo maestro che non può inoculare il veleno dell'errore con
vera dimostrazione e mostrando allo intelletto la verità, lo
inocula col sofisma, e, solleticando i cuori giovinetti, col
proporre alla indisciplinata loro imaginazione beni solo apparenti e
in realtà menzogneri. Così viene sciolta la molla delle
adolescenti passioni. Dall'altro lato, sotto a' professori intelligenter lectis [=
scelti con saggio discernimento
N.d.R.], i giovani fanno vero
profitto quando quelli, conoscitori della vera filosofia, sanno
metterla nella bella sua luce; quando disciolgono chiaramente tutti i
sofismi, che, quali difficoltà, le si oppongono, presi dalle
false metafisiche dei panteisti, ontologi, materialisti, idealisti,
sensisti, o dalla fisica di quei moderni epicurei, che contenti di
soli atomi e di solo moto fanno senza anime, senza creazione, senza
Dio; quando finalmente, imitando i vetusti scolastici, col vaglio di
sottilissima analisi cribrano tutte le sentenze, e colla prova del
sillogismo dimostrano tutte le filosofiche verità.
Una certa sperienza non solo c'insegna che i giovani egregiamente,
come docile soggetto, si lasciano informare alla vera filosofia, ma
ancora che, se venga loro fatto d'incontrare bravi professori, si
danno allo studio di quella con indicibile affetto, ardore e costanza,
dando in ciò a divedere che per loro la vera filosofia è
cara luce alla mente e alla volontà soave diletto. Laddove nelle
scuole, ove s'insegna falsa e prava filosofia, i giovani hanno
leggermente in fastidio la speculazione filosofica e, o si danno a
coltivare le discipline esperimentali, le matematiche, la letteratura
od altri studii positivi; oppure si gittano all'ozio, e a que' vizii
ai quali è soprammodo inclinata la gioventù, e nei quali sordescunt [= s'insozzano
N.d.R.] impantanati i giovani
oziosi.
Entrati a discorrere dei professori, prima cosa, dobbiamo indicare in
che stia la essenza del magistero, per discendere poscia ad utilissime
illazioni. L'Aquinate, da quel filosofo sommo ch'egli è,
toccò quella essenza nelle Somme Teologica [2]
e Filosofica [3] e nella
Questione de Magistro in
maniera bella, sublime e vera. Riduciamo prima a breve sintesi il suo
discorso. Uno solo è il principale e vero Maestro; questi è
Dio: gli uomini hanno un magisterio partecipato e secondario. L'anima
umana ha nella sua essenza
un lume intellettuale creato da Dio, che dicesi intelletto agente.
Questo lume dai fantasmi, formati nella immaginazione del pargolo,
astrae le specie intelligibili più universali; quindi
l'intelletto sotto la scorta di questo a sè intimo lume,
informato da quelle specie intelligibili naturalmente
genera i verbi mentali nei quali sono i
primi principii. Adunque questi principii si hanno per
magistero divino perchè: Deus
est causa naturae et in necessariis causa causae est causa causati.
[«Dio è causa della natura, e nelle cose necessarie
(cioè in ciò che non è contingente) la causa della
causa è la causa di ciò che è stato causato.» N.d.R.] La scienza non insegna
que' principii, ma da essi deduce illazioni, o gli applica a soggetti
via meno universali. L'intelletto umano talvolta, sotto la scorta del
predetto lume, di per sè deduce quelle illazioni, di per sè
fa l'applicazione suddetta, ed in tal caso l'uomo acquista
da sè stesso la scienza. Ma più agevole è
l'acquisto della medesima quando altri, che di già conobbe il
modo onde quelle illazioni vengono da' primi principii, e il come si
debbano o si possano fare le anzidette applicazioni, col mezzo della
propria parola, e dei conseguenti fantasmi che per essa vengono
eccitati in chi l'ascolta, indica
a questo l'una cosa e l'altra. Perciò questi senza
ricerche, senza studio, col solo attendere e col ripetere nel suo
interno il processo mentale del maestro, ottiene la scienza. Da
ciò si vede che l'intelletto nell'acquisto della scienza, non
è quale potenza puramente passiva, la quale da sè sola non
può attuarsi, come è il marmo che di per sè solo non
può acquistare la figura del Mosè; ma è in potenza
passiva insieme ed attiva, perchè e da sè può
acquistare la forma della scienza, e pure può acquistarla
coll'altrui aiuto; come è l'uomo non soltanto potenza passiva
rispetto alla sanità, ma è potenza attiva insieme e passiva,
mercecchè talvolta l'acquista per virtù di natura, talvolta
col mezzo dell'arte medica, che non fa tutto nè fa sola ma coopera colla stessa natura.
«Similiter, dice l'Aquinate, dicendum est de scientiae
acquisitione; quod praeexistunt (cioè prima della scienza
esistono, e non già che non derivino dall'astrazione dai
fantasmi; ciò è opposto a cento chiare testimonianze
dell'Angelico, ed è smentito da quello che segue immediatamente)
in nobis quaedam scientiarum semina, scilicet primae conceptiones
intellectus, quae statim lumine intellectus agentis cognoscuntur per
species a sensibilibus abstractas
sive sint complexa ut dignitates (questi sono i primi e più
universali principii), sive incomplexa (che sono i primi e
universalissimi concetti, onde derivano que' principii) sicut ratio
entis et unius et huiusmodi, quae statim intellectus apprehendit.
Quando ergo ex istis universalibus cognitionibus mens educitur ut actu
cognoscat particularia, (cioè deduca illazioni e faccia
applicazioni), quae prius in potentia, et quasi in universali,
cognoscebantur, tunc aliquis dicitur scientiam acquirere.» [«Similmente
(dice l'Aquinate) bisogna
dire a proposito dell'acquisizione della scienza, che preesistono (cioè prima della scienza
esistono, e non già che non derivino dall'astrazione dai
fantasmi; ciò è opposto a cento chiare testimonianze
dell'Angelico, ed è smentito da quello che segue
immediatamente) in noi alcuni semi delle scienze, cioè
i primi concetti dell'intelletto, i quali subito, alla luce
dell'intelletto agente, sono conosciuti per mezzo delle specie astratte dalle realtà sensibili,
sia che siano complessi, come gli assiomi (questi
sono i primi e più universali principii), sia che
siano incomplessi (che sono i
primi e universalissimi concetti, onde derivano que' principii),
come la nozione di ente e di uno e altre dello stesso genere che
l'intelletto apprende immediatamente. Quando dunque da queste
conoscenze universali la mente è condotta a conoscere in atto i
particolari (cioè deduca
illazioni e faccia applicazioni) che prima erano conosciuti
in potenza e quasi in universale, allora si dice che si acquista la
scienza.» N.d.R.]
Dimostrato poscia come l'intelletto non è pura potenza passiva
rispetto all'acquisto della scienza, ma attiva insieme e passiva, e
svolta la similitudine del malato che ora ottiene la sanità colla
sola virtù naturale, ora coll'aiuto delle medicine «quibus
velut instrumentis natura utitur ad sanationem» [«di
cui la natura fa uso come strumenti per la guarigione» N.d.R.],
così continua: «Ita etiam est duplex modus acquirendi
scientiam; unus quando naturalis ratio per se ipsam devenit in
cognitionem ignotorum, et hic modus dicitur inventio:
alius quando rationi naturali aliquis exterius adminiculatur, et hic
modus dicitur disciplina.
In his autem quae fiunt natura et arte eodem modo operatur ars, et per
eadem media, quibus et natura. Sicut enim natura in eo qui et frigida
causa laborat, calefaciendo induceret sanitatem, ita et medicus; unde
et ars dicitur imitari naturam. Similiter etiam contingit in scientiae
acquisitione, quod eodem
modo, docens alium ad scientiam ignotorum deducit sicut
aliquis inveniendo deducit seipsum in cognitionem ignoti.»
[«Così pure è duplice il modo di acquistare la
scienza: uno quando la ragione naturale da se stessa giunge alla
conoscenza di ciò che ignorava, e questo modo si chiama scoperta (in
lat. inventio);
l'altro quando qualcuno dall'esterno porta aiuto alla ragione
naturale, e questo modo si chiama insegnamento
(in lat. disciplina).
Ma in quelle cose che sono prodotte dalla natura e dall'arte, l'arte
opera allo stesso modo e con gli stessi mezzi della natura: come
infatti la natura in chi soffre a causa del freddo indurrebbe la
salute riscaldando, così anche il medico; per cui si dice anche
che l'arte imita la natura. Similmente accade pure nell'acquisizione
della scienza, che cioè il docente conduce un altro alla
conoscenza delle cose che ignorava allo
stesso modo in cui qualcuno, mediante la scoperta (inveniendo,
cfr. sopra inventio),
conduce se stesso alla conoscenza di ciò che non sa. N.d.R.]
Adunque siccome il medico deve, coll'aiuto della medicina, operare
come opererebbe la natura per ottenere la sanità; così deve
il maestro, per mezzo della sua parola, far sì che il discente
faccia nel suo intelletto quelle operazioni che naturalmente si
farebbono per acquistare la scienza.
Seguiamo: «Processus autem rationis pervenientis ad cognitionem
ignoti in inveniendo est, ut principia communia per se nota (e sono dignitates et principia quae
praeexistunt innanzi alla scienza) applicet ad determinatas
materias, et inde procedat in aliquas particulares conclusiones, et ex
his in alias; unde et secundum hoc unus alium docere dicitur, quod
istum discursum rationis, quem in
se facit ratione naturali, alteri exponit per signa; et sic
ratio naturalis discipuli, per huiusmodi sibi proposita sicut per
quaedam instrumenta, pervenit in cognitionem ignotorum. Sicut ergo
medicus dicitur causare sanitatem in infirmo natura operante, ita
etiam homo dicitur causare scientiam in alio operatione rationis
naturalis illius et hoc est docere: unde unus homo alium docere
dicitur, et eius esse magister. Et secundum hoc dicit philosophus, I posteriorum, quod demonstratio
est syllogismus faciens scire.» [«Il processo della
ragione che giunge alla conoscenza di ciò che le è ignoto
colla scoperta (in inveniendo, cfr.
sopra inventio) sta
nell'applicare i principî comuni di per sè noti (e sono assiomi (dignitates) e principi
preesistenti innanzi alla scienza) a determinate materie,
e di là procedere a qualche conclusione particolare, e di qui
ad altre: onde si dice pure che uno insegna a un altro perchè
espone a un altro per mezzo di segni questo procedimento della
ragione che la ragione naturale
compie in se stessa; e così la ragione naturale del
discepolo per mezzo di ciò che gli viene proposto in tal modo
perviene, come per mezzo di determinati strumenti, alla conoscenza
di ciò che non sapeva. Come dunque si dice che il medico causa
la salute nel malato con l'attività della natura, così
pure si dice che un uomo causa la scienza in un altro con
l'attività della ragione naturale di quest'ultimo, e questo
è insegnare: per cui si dice che un uomo insegna ad un altro ed
è suo maestro. E in base a ciò il Filosofo (Aristotele,
Analitici secondi l. I) afferma che la dimostrazione
è un sillogismo che fa sapere.» N.d.R.]
Da ciò segue che se il maestro vuole che il discente ammetta
ciò che non vede contenersi o derivare dai principii, non
otterrà nel medesimo discente scienza, ma sola fede od opinione,
perchè questi deferendo all'autorità del suo maestro non
vedrà intellettualmente ma crederà
ciò che gli dice. «Si aliquis alicui proponat ea
quae in principiis per se notis non includuntur, vel includi non
manifestantur: non faciet in eo scientiam, sed forte opinionem, vel
fidem.» [«Se qualcuno proponga a qualcun'altro cose
che non siano incluse nei principii per sè evidenti, o che non
è manifesto che siano incluse, non produrrebbe in lui la
scienza, ma forse l'opinione, o la fede.» N.d.R.]
Quindi conclude l'Angelico dicendo che il lume della mente nostra non
è Dio-idea (come ora vogliono
i Rosminiani), o la stessa increata verità, ma ne è solo similitudine; e che
ciò basta per dire che Dio stesso precipuamente è maestro
dell'uomo. «Huiusmodi autem rationis lumen, quo principia
huiusmodi sunt nobis nota, est nobis a Deo inditum (perchè,
secondo che spesso è
detto dall'Angelico, appartiene alla essenza
dell'anima, ed è sua naturale
ed intrinseca virtù
e non rifulge innanzi a lei ab
extrinseco: perciò Bonaventura dicea con Dionisio [4], «substantiae intellettuales, eo ipso quod
intellectuales substantiae, lumina sunt») quasi quaedam similitudo
increatae veritatis in nobis resultantis. Unde cum omnis
doctrina humana efficaciam habere non possit nisi ex virtute illius
luminis; constat quod solus Deus est qui interius et principaliter
docet, sicut natura interius et principaliter sanat; nihilominus tamen
et sanare et docere proprie dicitur modo praedicto. [5]» [«Ma un tal lume della
ragione, per mezzo del quale tali principî sono a noi evidenti,
è posto in noi da Dio (perchè,
secondo che spesso è detto dall'Angelico,
appartiene alla essenza dell'anima,
ed è sua naturale
ed intrinseca virtù
e non rifulge innanzi a lei ab extrinseco: perciò
Bonaventura dicea con Dionisio [4], «le sostanze intellettuali,
proprio in quanto intellettuali sostanze, sono lumi»)
come una qualche similitudine
della verità increata risultante in noi. Laonde, poichè in
ogni insegnamento umano non può avere efficacia se non in
virtù di quel lume; è palese che soltanto Dio è colui
che internamente e principalmente insegna, come la natura
internamente e principalmente guarisce; nondimeno si afferma in modo
proprio che anche l'uomo guarisce ed insegna nel predetto modo. N.d.R.] Ecco la perfettissima
pedagogia della scienza: ecco la nobilissima dottrina del magistero
filosofico scientifico di quel Tommaso che dagli imbecilli vien detto
iurare in verba magistri;
quasi che fosse suo costume in cose filosofiche lasciarsi condurre
alla sola autorità altrui, e sostituire, nell'insegnamento, alla
scienza la fede: ecco la giustificazione di noi che vogliamo incarnare
nelle scuole il metodo dell'Aquinate: ecco la condanna di quasi tutte
le scuole ammodernate nelle quali (si eccettuino le matematiche e le pure esperimentali) si ciancia
molto, s'insegna poco: e in cui gli scolari in luogo della verità
spesso imparano l'errore, e in luogo della scienza hanno opinione e
fede, perchè si lasciano trarre all'autorità de' professori
o dei, così detti, scienziati del secolo. Ma non deviamo dal
sentiero nostro, e la stupenda dottrina dell'Angelico seguitiamo ad
adoperare al nostro proposito.
Adunque il professore di filosofia deve usare nell'insegnamento quel
processo, che è dall'Aquinate proposto. Voglionsi da prima
richiamare alla mente del discepolo i
primi concetti intellettuali e i primi principii, Dicevamo richiamare e non insegnare,
perchè il professore deve ingenerare la scienza e non ciò
che avanti alla scienza praeexistit
[= preesiste N.d.R.]
e che incomincia al primo sbocciare della ragione, che avviene quando
il bambolo è recato ancor sulle braccia materno. Così
diciamo perchè il sorriso del pargoletto e l'uso iniziale di
fisica libertà suppongono e primi concetti e primi principii
razionali; sebbene non suppongano i principii morali che più
tardi si acquistano. Se non che il professore intorno a quei primi
concetti e a que' principii universali può e deve adoperarsi,
coordinandoli, mostrando la primazia degli uni e le subordinazioni
degli altri; dichiarandone la portata e la loro inconcussa fermezza.
Quindi deve dimostrare al discepolo come dai principii derivano le
illazioni ognor meno universali e ad oggetti via meno universali
facciansi le applicazioni. Quest'è adunque il metodo per
eccellenza scolastico dell'Aquinate. Prima cosa viene la Logica,
perchè anzitutto conviene conoscere il modo di sapere, e poi
acquistare la scienza. Quindi nella Filosofia
prima si richiamano alla mente del giovane i primi concetti e
i primi principii, si coordinano, si dichiara il loro valore. Poscia
si traggono le illazioni e si fanno le applicazioni discendendo mano
mano a ciò ch'è meno universale. Per far ciò
convenientemente si divide in due parti la filosofia (secondo lo
insegnamento dell'Angelico) la prima delle quali che è a noi
(perchè dai sensi pigliamo le mosse) più ovvia e facile,
astrae dalla materia individuata la
quiddità specifica ed è la Fisica
Razionale. La seconda, più a noi remota e difficile,
astrae anco dalla materia considerata intellettualmente nell'essere
suo specifico, e contempla le sole forme separate, ossia gli enti
indipendenti dalla materia ed è la Metafisica.
Lo scolastico professore prima quella, poi questa insegna. In quella e
in questa va digradando sempre al meno universale. Perciò nella
Fisica Razionale prima tratta della sostanza corporea in generale e
delle sue proprietà universali; poi dell'inorganica; quindi della
vivente. poscia della senziente; finalmente dell'uomo, il quale è
ultima specie rispetto alle precedenti sostanze, che si hanno in conto
di generi meno e più rimoti. Nella Metafisica la prima
trattazione può farsi delle sostanze immateriali create; la
seconda di Dio. Altri può usare i nomi di Ontologia, di Biologia,
di Zoologia di Antropologia, di Teologia naturale ecc. esprimendo le
dottrine filosofiche testè indicate; ciò poco monta, qualora
il metodo sia quello che indichiamo secondo l'indole del magistero
dataci dall'Aquinate. Che se si può con danno non gravissimo
alterare un pocolino questo metodo; il travolgerlo affatto e mettere,
per esempio, la trattazione scientifica dell'uomo prima della logica,
la filosofia prima dopo le altre parti, ecc. non si può fare
senza dispendio grande di tempo, senza iattura d'ordine e
conseguentemente senza turbare le menti giovanette, e rendere loro
difficilissimo, faticoso, noioso l'acquisto della scienza.
Ma san Tommaso, con Aristotele e con tutti quelli che non hanno dato
a rimpedulare il proprio cervello [= mandato il proprio
cervello a rammendare come fosse un paio di calze N.d.R.],
dice che demonstratio est
syllogismus faciens scire [la
dimostrazione è un sillogismo che fa conoscere qualcosa
N.d.R.]. Adunque, essendo
ufficio del professore dimostrare
al discepolo come derivino le illazioni dai noti principii e
come le medesime si applichino, ha bisogno assoluto di adoperare il sillogismo, non potendovi
essere dimostrazione, senza quel sillogismo che è la sua
definizione e che significa la sua stessa essenza. Dimostrare
scientificamente senza sillogismo è come misurare senza misura.
Ma sebbene il sillogismo sia necessario, tuttavolta non sempre deve il
professore parlare in istretto e nudo sillogismo; perchè è
mestieri con varii svolgimenti, similitudini, applicazioni la cosa
difficile rendere facile e palpabile. In questo s'imiti l'Angelico
(nè l'imitazione dev'essere servile) il quale e nella Somma
Filosofica e nella Teologica ci lasciò un eccellente modello di
scolastiche lezioni,
È manifesto che ciò che al vero si oppone è falso, e
che il falso non può derivare dai primi principii che con lume
divino apprendiamo. Quindi del falso non ci può essere
dimostrazione, ossia syllogismus
faciens scire, il quale esprima il derivare che fa il falso
stesso da quei principii. Tuttavia e il vero assai sovente si oppugna,
e il falso si insegna e si accetta. Dunque facendo questo non si
adopererà altro che il sofisma, che ha la maschera non la
realtà del sillogismo. Per ciò, quando si tratta di sciorre
le argomentazioni che si fanno contro la verità, torna bene che
sieno ridotte in istretta forma logica, affinchè ne apparisca
netto il vizio sofistico e convenientemente disciolgansi.
Che se allo insegnamento della filosofia vengano concesse più
ore al giorno, si assegni alquanto di tempo in ogni lezione per
interrogare i giovani sopra la lezione passata, e per togliere
dubbiezze e difficoltà intorno alla lezione presente: e si
determini un'ora almeno alla settimana, per esercizio di
argomentazione. In questo esercizio siavi un Difendente
che dimostri sodamente la tesi; e due almeno Argomentanti,
i quali in istretta forma dialettica la oppugnino. Il quale esercizio
non solo è vantaggiosissimo a rendere vivace e gradito
l'insegnamento della filosofia, ma specialmente torna assai utile a
svegliare lo ingegno e a preparare i giovani a sciogliere le
difficoltà che fuori della scuola si fanno dagli scettici, dai
materialisti e dagli epicurei del nostro tempo. E perchè i
giovani possano rendersi valorosi nel detto esercizio, debbono
conoscere la terminologia scolastica e avere alle mani le distinzioni
scolastiche e gli scolastici assiomi,
che sempre occorrono, sia nella parte dimostrativa sia nella parte
polemica delle disputazioni. Un libretto, che sarà a' giovani
inlulensamente più utile che i lessici
peripatetici dei nostri giorni e che in sè tutti gli
contiene, è il Thesaurus
philosophorum seu Distinctiones et Axiomata philosophica del
Reeb (ristampato non è guari a Bressanone nel Tirolo dal Weger e
a Parigi dal Lethielleux), perchè il Reeb egregiamente e
pienamente conosceva la filosofia dell'Angelico ed aveva una
vastissima erudizione dei dottori scolastici, come è chiarito
dalle numerosissime citazioni che fa di loro. Qua e là brevi note
o scolii sono opportunamente inseriti per chiarire i punti di maggiore
momento. All'esercizio della disputazione vuolsi aggiungere un'altra
cosuccia, ed è che il professore a quando a quando imponga a'
discepoli che diano in iscritto dissertazioncelle nelle quali vi sia
la parte dimostrativa e la polemica delle tesi, in istretta forma
ovvero diffusamente e con un po' di eloquenza dettate, specialmente
quando occorrano verità di alta importanza, od errori moderni,
nella confutazione dei quali debbono i giovani rendersi peritissimi.
Il professore dev'essere memore del proverbio che dice: «chi
troppo abbraccia nulla stringe», e perciò bisogna ch'egli si
contenti di quello che può ottenere, considerata la età, la
condizione dei discepoli e il tempo che alla filosofia viene
assegnato. A queste cose deve, fin dal principio dell'anno, porre
mente, ed osservare se gli convenga spiegare un corso lungo o un corso
breve, e quanto tempo possa consecrare alla trattazione delle singole
questioni. Chi ha un'accolta di giovinetti discepoli non ancora
trilustri non può certamente sperare quel frutto del suo
insegnamento filosofico, che ha in diritto di attendere un professore
che ha una eletta corona di giovani più adulti, che più
prezzano l'importanza della filosofia, e che più sono mossi dalla
sua dignità, dalla sua bellezza. A questi tempi in cui eziandio
l'insegnamento ginnasiale e liceale dei Seminarii deve, più o
meno, acconciarsi a quello de' ginnasii e licei del Governo (e il fare
così è dura cosa ma richiesta dal bene della Chiesa e della
Società), i cherici che
dei laici dovrebbono essere nella filosofia più addottrinati,
non possono dare alla medesima che poco tempo, distratti da altri
molti e disparatissimi studii. Ci vuole pazienza! Ma insiememente si
ponga tutto lo studio per cogliere da' cherici stessi tutto quel
più che, considerate le circostanze, possono dare. Che se il
professore vede che varie cose egli per necessità deve omettere:
osservi quali sieno quelle che dopo essersi trattate in filosofia, pur
si tratteranno in Teologia, e sopra queste faccia una elezione
discretiva e prudente, altre toccandole di passata, altre lasciandole
affatto. Non mai per dare a' giovani lo specioso, lo splendido, il
dilettevole ometta il necessario e l'utile. Non ometta di trattare,
con forza di ragionamento e pari chiarezza di forma, que' principii Razionali della fisica che
spettano alla filosofia; perchè oggimai a nome di quella scienza
non solo si dispregia la sapienza dell'Aquinate, ma si muove guerra
alla Chiesa e si diffonde il materialismo, l'epicureismo e persino
l'ateismo.
Non mai si diparta il professore dalla norma del magistero dataci
testè dall'Aquinate: e però sempre sillogizzando, dimostri
che le conclusioni, ch'ei vuole fare abbracciare, discendono
dai principii evidenti e inconcussi, nè mai adduca come argomento
filosofico dimostrativo
l'autorità di chicchessia, nemmeno quella del santo dottore. Egli
deve già essere razionalmente convinto che la sentenza
dell'Angelico è vera: può manifestare, anzi conviene che
manifesti a' giovani che quella ch'egli insegna è sentenza
dell'Angelico, ma ciò non basta: vuol essere adoperata la vera
dimostrazione, ossia syllogismus
faciens scire; perchè l'Angelico
già ci disse che la sola autorità può generare
opinione o fede, ma scienza no. Così fecero i filosofi
scolastici che seguirono le grandi orme del principe de' cristiani
filosofi, e mentiscono coloro che deridono gli scolastici quali
credenzoni che, nel campo filosofico, alla scienza sostituirono il
dogma. Contro a' quali detrattori di ciò che ignorano noi non ci
peritiamo di affermare che vi è più forma dimostrativa e
scientifica nella sola Metafisica dell'esimio dottore Suarez, che in
tutte insieme le filosofie, che uscirono dalla penna de'
pseudofilosofi avversi alla dottrina dell'Aquinate dal 1700 fino a
noi. E di questo manco di logica negli avversarii degli scolastici
deve il professore fare capaci i giovani, affinchè valgano
all'uopo di far tacere coloro che, non sapendo lottare con la ragione,
s'ingegnano di lottare colla calunnia confortata dall'autorità
dei saccentini o degli ignoranti.
Fin qui abbiamo delineati i tratti generali di pedagogia filosofica,
lasciato il particolareggiare ai filosofi nei loro corsi. Abbiamo con
questi tratti indicato il modo più acconcio ad imprimere nel
docile soggetto delle menti giovanette la forma sublime della
cristiana filosofia. Ma diteci, lettore gentile, molti artisti,
lavorando nello stesso marmo, avrebbono potuto darci quello stupendo
lavoro che dicevamo, ossia il Mosè? Sì; a patto però
che una idea comune signoreggiasse gli scalpelli di tutti; che se la
mano di ognuno fosse stata retta da diverse idee, quel lavoro
bellissimo sarebbe stato impossibile. Trasferiamo questo al caso
nostro. Se il professore di filosofia dovesse e potesse solo
coltivare la mente dei discepoli che vanno alla sua scuola,
nulla ci resterebbe a dire; ma siccome altri professori stanno intorno
alla mente medesima, quando la costoro cultura si oppone, e la
opposizione sia gagliarda ed efficace, il frutto sarà scarso ed
incerto. In vero studio dicevamo opposizione
e non semplice disparità; perchè l'insegnare che fa
un professore cose disparate, o fuori di rapporto con quelle che altri
insegna, nulla toglie, eccetto il tempo: ma assai nuoce che uno
insegni quello esser vero che da altri, nello stesso corso, agli
stessi giovani viene insegnato essere falso. Si può incontrare
tale opposizione assai facilmente fra il professore scolastico di
filosofia e il professore di fisica, allorchè questi, lasciata la
narrazione, la coordinazione dei fatti e delle leggi onde avvengono,
vuole sorgere alla essenza delle cose ed alle cause efficienti, senza
avere un buon fondo di sana filosofia e senza essere forte in logica.
Quando un professore di fisica è tale, ha il vezzo (oggi non
raro) di costituirsi rappresentante della scienza moderna; darsi come
il portavoce di tutti gli
scienziati; chiedere fede alla sua autorità dove dovrebbe
dimostrando produrre vera scienza; deridere i professori di filosofia
che pensano diversamente da lui, e, senza recare le dimostrazioni di
questi, confutare solo col dispregio le loro sentenze. A lezioni
siffatte l'animo del giovane tentennerà e sarà sviato.
Esemplifichiamo. Un applaudito professore di fisica insegni queste
sentenze [6]. «Materia e
forza anzichè due distinti principii, sono due aspetti
sotto i quali la mente nostra può considerare qualsiasi corpo. Il
moto non può essere prodotto da ciò che non è moto [7]. Per questa scienza (la fisica)
il pensare che un moto sussistente (sussistente
il moto!) possa annientarsi, è non meno assurdo che il
supporre possa un movimento essere creato dal nulla, cioè da
ciò che non sia moto. La creazione e la distruzione di un moto
è non meno inconcepibile della creazione o della distruzione
della materia, almeno dal lato scientifico [8].
Per noi non è meno assurda una così fatta genesi del moto (che possa cioè prodursi da
ciò che non è moto), di quel che sia la creazione
della materia dal nulla. La fisica non può appagarsi di parole, e
meno poi può appagarsi di miracoli. Ciò potrà tornar
comodo ai teologi ed agli ontologisti, ma non è certo utile per
la vera scienza [9]. La
investigazione della essenza delle cose, e delle cause prime dei
fenomeni riesce oziosa od infeconda [10].»
Supponiamo per poco che queste affermazioni dal professore di fisica
vengano confortate con le solite tirate contro la ignoranza dei
vetusti scolastici e ben condite di rimproveri contro a moderni che
vogliono risuscitare le dottrine di quelli; l'inesperto giovinetto che
farà? Sarà per certo preoccupato da pregiudizii, e troppo
tardi, con diffidenza e con disattenzione sarà udita la lezione
del professore di filosofia, quando non
contentandosi di sole parole, come il Cantoni,
dimostrerà con invincibili argomenti che il primo motore è
immobile ed è Dio; che non si può non ammettere la
creazione: che lo ammettere Dio creante e primo motore e conservatore
della natura e delle sue forze non è entrare nei miracoli, ma
è uno stabilire il necessario fondamento a tutte le leggi
fisiche, nella particolare derogazione delle quali (derogazione
possibile e talvolta di fatto) consiste il miracolo: che cagione di
moto sono ancora le anime umane, le anime dei bruti, i principii di vera forza insiti in tutte le
sostanze corporee: che il moto non è indistruttibile, nè la
sua quantità (rispetto a tutto l'universo) invariabile:
finalmente che ciò ch'è vero in teologia od in metafisica,
non può in fisica essere falso. Per certo le dimostrazioni del
professore non avranno la debita efficacia sulla mente del discepolo,
già preoccupata ed indisposta. Gli è qui come gittare
dell'acqua purissima sopra una carta spalmata in prima coll'olio:
l'acqua non entra! Eppure il libro del Cantoni non è rimosso
dalle scuole cattoliche sempre e da per tutto. A petto del
Büchner e del Moleschott professore nell'Università Romana,
egli è un baciapile e un collo torto. E poi, comechè altri
autori di fisica non cadano in quelli errori, che possiam dire
ereticali, nei quali cade il Cantoni, alcune ipotesi pur professano
che sono diametralmente contrarie ai fondamentali
principii dell'Aquinate, e, perciò stesso, il conflitto
che dicevamo tra i professori, rispetto allo insegnamento, non solo
è possibile, ma probabile.
Adunque è necessario che si faccia tra i professori di scienze
diverse sincera concordia, affinchè l'uno non distrugga quello
ch'è edificato dall'altro. Questo accadrà quando i
professori di fisica, messi da lato tutti i pregiudizii, specialmente
quelli che piglian forza dall'autorità di certe moderne,
così dette, celebrità,
si proporranno di accettare e di propugnare ciò ch'è
dimostrato e certo, di rigettare quello che non
è dimostrato nè certo, se avvenga che si ritrovi in
opposizione non solo coi principii della fede ma eziandio con le
sentenze dimostrate dalla
vera filosofia. D'altra parte poi i professori di filosofia rispettino
ed accettino tutti i fatti
che dà la fisica, tutte le
conclusioni che logicamente da loro discendono, nè, tratti da
irragionevole amore all'antichità, si diano a sostenere
sconsigliatamente sesquipedali e certi errori che, nel campo delle
fisiche esperimentali, furono presi dai vetusti fisici, i quali non
aveano nè potevano avere alla mano quella dovizia di mezzi per
trarre dalla natura l'accurata, e saggia esperienza, che noi abbiamo.
Cuique suum; ed a ciò
pur intese Papa Leone, come già sopra abbiamo indicato. Se
ciò avverrà, si vedrà che anche le scienze
sperimentali, senza punto dietreggiare o sostare nel loro progresso,
si appoggeranno (come ci disse lo stesso Santo Padre) a solide basi;
ed insieme sarà a tutti manifesta la menzogna di coloro che
audacemente affermano non potersi la scienza conciliare con la fede e
per ciò doversi questa proscrivere e distruggere la Chiesa. Il
perchè non possiamo non applaudire agli scrittori della Scienza
Italiana che con acconce dissertazioni studiaronsi di far
quello che andiamo dicendo, e nominatamente col ch. Monsignore Rubbini
(che, come sappiamo, da molt'anni insegna le scienze fisiche e le
matematiche), il quale nel periodico la Scienza
Italiana incominciò, subito dopo la pubblicazione
dell'Enciclica, un Corso di lezioni di fisica elementare in armonia
coi principii fisicorazionali di S. Tommaso, ordinandole appunto allo
insegnamento della gioventù. Oh
teniamolo ben fermo! la verità non può essere opposta alla
verità, e per[ci]ò vano è l'affermare
che alla filosofia si oppone la fisica: ed empio, che la scienza si
oppone alla fede, e che come cristiani dobbiamo credere quello che
dobbiamo negare quali scienziati. Questa opposizione è
intrinsecamente impossibile; e solo può essere affermata da
uomini mancanti di senno, o da uomini rei che vogliono, nella loro
superbia, ribellarsi alla verità e a Dio.
Al primo diffondersi di questa sentenza blasfema, cioè che la
scienza è opposta alla fede, l'Apostolica Sede ne diede
solennissima ed autorevolissima smentita. Pio IX di santa e gloriosa
memoria dichiarò assai volte il reale conflitto impossibile: il
Concilio Vaticano confermò la parola del Vicario di Gesù
Cristo, e Leone volle operare in guisa, che la stessa sentenza, nella
quale si conteneva il voto scellerato di distruggere la Chiesa,
venisse ancora sbugiardata dal fatto stesso. Il che deve avvenire
alloraquando dalle cattedre si dimostri (ciò che già fu
detto dal Concilio Vaticano) che quelle dottrine, che si danno da
falsi scienziati quali dettati della scienza opposti alla vera fede,
altro non sono che ipotesi infondate e false, che sistemi assurdi e
contrarii alla natura ed ai certi principii dell'umana ragione. Ma a
ciò che sia chiarita a tutti questa giustificazione della fede
oltraggiata da falsi scienziati moderni, e si vegga la scienza vera
stretta alla fede con amoroso ed umile amplesso illuminare i popoli, e
condurli per la via del vero progresso, ritrattili da quell'abisso nel
quale stanno quasi precipitando, egli è mestieri che si rimetta
in onore la cristiana filosofia. La quale sola
ha intorno la fronte l'aureola splendida della verità e
perciò i suoi principii non mai opposti a quei della fede, sono
evidenti al lume della ragione.
Più volte Pio IX dalla sua Sede Apostolica eccitò i
filosofi a non lasciarsi illudere dalla fallace sapienza ed a seguire
que' dottori che, per dottrina, come stelle rifulsero nella Chiesa.
Ciò fece direttamente ed anco indirettamente, condannando
cioè errori filosofici: come vedesi nelle memorabili sue lettere
nelle quali proscrive gli errori di Gunther e quelli del Baltzer; ed
ancora nella condanna della
famosa proposizione 13a del Sillabo,
nella quale si calunnia la dottrina degli scolastici, facendola
passare come retriva e contraria a' progressi della scienza ed alla
condizione dei nostri tempi. «Methodus et principia,
quibus antiqui Doctores Theologiam excoluerunt, temporum nostrorum
necessitatibus scientiarumque progressui minime congruunt.» [«XIII.
Il metodo e i principii, coi quali gli antichi Dottori scolastici
coltivarono la teologia, non si confanno alle necessità de'
nostri tempi e al progresso delle scienze.» N.d.R.]
Gravissimo documento è questo, ma in esso non possiamo scorgere
un precetto e nemmeno una volontà spiccata del Papa che si
abbracci la filosofia dell'Aquinate. Sono eziandio di alta rilevanza
le parole del medesimo Santo Padre Pio IX con le quali approvò
l'Accademia filosofica medica nata in Roma nel 1874, composta di
Dottori e Professori di Teologia, di Filosofia, di Scienze Naturali e
di Medicina. «Libentius etiam videmus, vos proposito vestro
fideles, eos tantum sodales
vobis adsciscere constituisse, qui
teneant et propugnaturi sint doctrinas a sacris Conciliis et
hac sancta Sede propositas, ac nominatim Angelici Doctoris principia
de animae intellectivae unione cum corpore humano, deque substantiali
forma et materia prima.» [«Vediamo pure con grande
Nostra compiacenza, che voi, ben fermi nel vostro proposito, avete
stabilito di aggregare a voi que' soli soci i quali tengano
e sieno pronti a propugnare le dottrine proposte dai sacri
Concilii e da questa santa Sede, e nominatamente i principii
dell'Angelico Dottore intorno alla unione dell'anima intellettiva
col corpo umano, e intorno alla forma sostanziale ed alla materia
prima.» N.d.R.] Tuttavia
il libentius videmus [vediamo con grande Nostra compiacenza
N.d.R.] non denota una
determinata volontà che si seguano non solo le dottrine proposte
dai Concilii e dalla Santa, Sede, ma eziandio le altre nell'apostolica
lettera indicate. Ma Iddio nella sua amorosissima provvidenza avea a
Papa Leone XIII preparata la gran missione di compiere l'impresa, cui
mise mano il santo suo predecessore, e di riformare la scienza
proponendo una Regola filosofica
piena e chiara, ed urgendone con altre ed altre gravissime lettere
l'esecuzione. Di questo memorabile fatto, che farà epoca negli
annali della Chiesa e delle Scienze, la necessità era tragrande,
come ce ne avverti il Papa stesso nell'Enciclica
Aeterni Patris e noi
l'abbiam fatto, a suo luogo, rilevare. Imperocchè oggimai
l'umana superbia «adversatur et extollitur supra omne quod
dicitur Deus [11]»,
[Cfr. II Thess. II, 4: «si oppone, e si innalza sopra
tutto quello, che dicesi Dio» N.d.R.]
nè possiamo andare alla riforma del cuore senza passare per la
riforma dell'intelletto. Tutto v'è da sperare, se anche in
questa occasione le pecorelle e gli agnelli ascoltino e seguano la
voce del Supremo Pastore: altrimenti saranno preda a' lupi.
Deh non si dica di veruno, che vi è prontezza nell'obbedire al
Papa, allorchè egli ci comanda quello che noi pure vogliamo; ma
che se vuole ciò che è contrario a' nostri intendimenti ed
al nostro amor proprio, allora c'è ritrosia, c'è freddezza.
Impariamo da Agostino, da Girolamo, da Tommaso d'Aquino, da
Bonaventura, dal Bellarmino, dal Suarez, dal Fénélon a
congiungere insieme sapienza ed umiltà: ed a' piedi di Leone
recandoci in ispirito ripetiamo le belle parole che a lui rivolse
l'Episcopato dell'Umbria ai 5 del passato ottobre. «Voi,
Beatissimo Padre, coronando le imprese del Santo Pontefice Pio IX,
nell'ammirabile Enciclica
Aeterni Patris avete
all'uopo presentato un nome — Tommaso
d'Aquino —; e questo nome dice di per sè solo la
dottrina, di cui dobbiamo far tesoro, e quale insieme sia l'ordine e
il metodo da seguitar nelle scuole. A noi pare che l'autorevole vostra
voce abbia troncato ogni questione, abbia vinto ogni titubanza, e che
sia tempo omai di ripetere le antiche parole: Ogni controversia è
finita; chi non raccoglie con Voi, disperde.»
La regola filosofica di Sua Santità Leone P. P. XIII. proposta nella Enciclica «Aeterni Patris» |
I. Gli antecedenti della Regola Filosofica stabilita dal Sommo Pontefice Leone XIII. |
II. La Regola Filosofica considerata in sè stessa. |
III. I conseguenti. |
Seguita dei conseguenti. |
IV. Seguita dei conseguenti - L'esecuzione della Regola Filosofica |
NOTE:
[2] I. Quaest. 117.
[4] Lib. II, Dist. 24, Parte I,
2-4.
[7] Pag. 27.
[8] Pag. 64.
[10] Pag. 58.
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